Ho letto con molta attenzione l’editoriale a firma di Paolo Mieli sul Corriere e penso sia doveroso da parte mia fornire a lei e al suo giornale qualche spunto di riflessione supplementare. Questo, nonostante dal 9 febbraio dello scorso anno, ossia da quando ho appreso da un quotidiano di essere sotto inchiesta a Caltanissetta, abbia scelto la strada del silenzio per il profondo rispetto che ho sempre avuto e che continuo ad avere nei confronti delle istituzioni.
In questo anno è stato detto di tutto. Sono stato descritto come un personaggio discutibile (e da chi? E perché?), utilizzando strumentalmente la notizia di una indagine a mio carico per concorso esterno a favore di quegli stessi personaggi mafiosi che ho contribuito a colpire duramente sia sotto il profilo della libertà personale che dell’illecito arricchimento.
Personaggi, quindi, dai quali è possibile aspettarsi ogni forma di reazione calunniosa, come insegna la storia.
È giusto, però, ricordare tutto quello che in quasi vent’anni di attività è stato fatto, sempre in costante rapporto con Magistratura, Forze dell’ordine e istituzioni delegate, allo scopo di radicare nel mondo dell’imprenditoria i valori e la cultura della legalità. Era il 2005 ed ero alla guida della Confindustria nissena, quando decidemmo di allontanare gli imprenditori legati alle organizzazioni mafiose, costituendoci, contestualmente, parte civile nei processi. Era la prima volta in assoluto di un’azione del genere.
Una rivoluzione innanzitutto culturale, ancora più difficile perché portata avanti in un territorio da sempre soggetto a forti condizionamenti mafiosi.
Lo abbiamo fatto. E non me ne pento, nonostante oggi stia pagando sulla mia pelle il prezzo di queste scelte di «rottura».
Grazie a quanto fatto anche a rischio della vita e mettendoci sempre la faccia in prima persona, abbiamo ottenuto risultati importanti: decine di imprenditori espulsi da Confindustria per contiguità alla mafia; dozzine di dimissioni spontanee; la creazione nelle principali città di un percorso che accompagna per mano gli imprenditori che vogliono denunciare i propri estortori; i commissariamenti mai osati prima di alcune Confindustrie locali; i protocolli d’intesa; l’obbligo di white list negli appalti pubblici; l’impegno di Confindustria per il proprio codice etico, dotato di importanti misure di contrasto alla criminalità e nato, non a caso, nel 2007 proprio a Caltanissetta; le costituzioni di Confindustria (prima a Caltanissetta e poi ovunque) come parte civile in processi contro esponenti di spicco della criminalità organizzata, offrendo sostegno a imprenditori vessati (l’ultimo esempio è quello del nostro presidente di Confindustria Trapani, Gregory Bongiorno, sostenuto non solo nella fase della denuncia ma anche e soprattutto quando i suoi aguzzini sono tornati in libertà. E questo nella terra dove ancora oggi impera Matteo Messina Denaro). E ancora, su mia proposta, la creazione di un «rating» per la legalità che è diventato legge nazionale dello Stato. Una nuova cultura per quella stessa associazione che, qualche anno prima, piuttosto che espellere mafiosi e collusi aveva isolato Libero Grassi il quale, se non fosse stato ucciso, era destinato a venir cacciato da Confindustria Sicilia.
Ma tant’è. Oggi di questo non si parla. E capita invece di essere linciati per le dichiarazioni di alcuni presunti collaboratori di giustizia, che sono poi gli stessi che, insieme ai loro dante causa, sono stati da noi tutti denunciati, così come è possibile leggere in documenti pubblici consegnati in commissione Antimafia, in occasione dei Comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica e, comunque, a tutti gli organi antimafia del Paese.
Eppure non c’è un solo fatto specifico che mi venga contestato, nessun rapporto inquietante o solo sospetto, nessuna prova documentale, nessun appalto sospetto, nessun rapporto commerciale illecito, nessun arricchimento immotivato. Solo le accuse generiche di collaboratori di giustizia, che nulla dicono di specifico e che, lo ripeto, provengono da quegli stessi soggetti che abbiamo duramente contribuito a colpire nel patrimonio e nella libertà personale.
Mi si chiede perché non mi dimetto? Rispondo con enorme franchezza: anche se non me lo impone il nostro codice etico, che io stesso ho voluto particolarmente restrittivo, lo avrei fatto se non fossi convinto che «togliendo il disturbo» farei un enorme favore alle mafie e ai colletti bianchi collusi e conniventi, finendo con l’abbandonare tutti quegli imprenditori che hanno lottato con me per rendere la Sicilia una terra «normale» e i colleghi che ho sostenuto e indirizzato verso le istituzioni.
Di certo mai vorrei che, per colpire una parte, si inficiasse il lavoro svolto da un intero sistema, tornando indietro di decenni e facendo rivivere stagioni buie che nulla di buono potrebbero portare alle imprese e alla società. Posso garantire, intanto, che, assieme alle altre associazioni, individueremo ulteriori anticorpi per evitare che, in malafede, venga utilizzata la denuncia contro i mafiosi per coprire ulteriori illeciti affari.
Non avrei potuto prevedere tutto questo, anche se già dal 2011 era risaputo esserci una strategia, con dossier prefabbricati, per colpire Confindustria Sicilia e i suoi vertici, perché più volte denunciato da varie articolazioni delle istituzioni e dalla stessa Autorità giudiziaria.
Io faccio l’imprenditore. È questo il mio lavoro e, da tre generazioni, abbiamo scelto di vivere di mercato puntando sull’eccellenza dei nostri prodotti, sulla ricerca e sull’innovazione.
E, al contrario di quello che è stato scritto, le assicuro che le mie scelte di vita all’interno dell’associazione tutto hanno fatto fuorché agevolare la mia attività. Mi rendo però conto che nella società dell’informazione, non importa ciò che fai, ma ciò che viene raccontato di te. Ed è per questo che ho deciso di scriverle, perché il lavoro che abbiamo fatto finora non venga gettato alle ortiche, favorendo chi attende solo questo.
Da più di vent’anni ho affidato alle istituzioni e alla magistratura la mia incolumità fisica, vivendo sotto scorta. Una sorta di «concorso esterno» allo Stato. Oggi, con la stessa fiducia, metto nelle mani della magistratura le oltre 1.200 pagine, con migliaia di documenti istituzionali allegati, che raccontano la storia della mia vita, dal 2004 monitorata costantemente dalle Forze dell’ordine.
Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia
Pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 Aprile 2016
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