Last updated on 6 marzo 2021
Serve al più presto la riforma della normativa che riguarda i beni sequestrati e confiscati, in continuo aumento in tutta Italia: 40 mila in totale (tra beni mobili, immobili e aziende) secondo alcuni dati, quasi 12 mila (solo i beni immobili) secondo l’Agenzia per i beni confiscati. Il loro valore è in ogni caso alto, secondo alcuni arriva al quello di una Finanziaria, ma lentezze burocratiche e una legislazione non adeguata fanno sì che molto spesso le aziende sequestrate e confiscate finiscano per morire, lasciando senza lavoro migliaia di dipendenti. Donatella Ferranti, presidente della Commissione Giustizia della Camera dove la riforma è approdata, spiega che il provvedimento sarà in Aula entro l’estate. «C’è un nodo da sciogliere che riguarda ruolo e funzioni dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati. Nel parere che darà il Governo sugli emendamenti in Commissione Giustizia, si scioglieranno questi nodi. Dobbiamo dedicare alcune giornate a questo tema in Commissione, credo nel giro di un paio di settimane. Poi il provvedimento andrà in Aula». A chiedere di fare in fretta sono innanzitutto coloro che operano a più stretto contatto con le aziende sequestrate. «Il primo problema che riscontriamo in questo crescente, quotidiano stillicidio di confische, è che siamo di fronte ad una assenza totale di dati: i numeri che hanno i tribunali non corrispondono a quelli dell’Agenzia dei beni confiscati», lamenta Luciano Silvestri storico dirigente nazionale della CGIL con delega alla legalità, anima della campagna per salvare dal fallimento le aziende sequestrate . Silvestri sottolinea la necessità di prevedere un Fondo di rotazione che possa mettere a disposizione finanziamenti che consentano alle imprese di reinventarsi o rimanere comunque sul mercato. Serve anche un Fondo di garanzia: si tratta infatti di attività hanno spesso contratto un mutuo con le banche, «il paradosso – spiega il sindacalista – è che quando arriva il sequestro le banche chiedono la chiusura dell’ipoteca e che si rientri dal prestito». Sono tanti i casi seguiti dai sindacati, al nord come al sud: a Palermo, ad esempio, una azienda edile in amministrazione giudiziaria ha professionalità e competenze per svolgere il proprio lavoro; ha partecipato e vinto gare d’appalto ma deve versare le fidejussioni e non ha la liquidità per farlo. Manca di liquidità anche una azienda metalmeccanica di Catania, che finora ha lavorato con appalti a Comiso. A Milano invece i dipendenti di un esercizio commerciale sequestrato dallo scorso anno non riescono a formare una cooperativa, a causa di pastoie burocratiche, e a dare seguito quindi al loro lavoro. «La riforma – spiega Davide Mattiello, Pd, relatore del testo di riforma – è ormai matura alla Camera, frutto del lavoro della Commissione Antimafia e della Commissione Giustizia che ha raccolto la proposta di legge di iniziativa popolare promossa con oltre 500 mila firme da Cgil, Cisl, Uil. Tra le novità maggiori c’è il ruolo dell’amministratore giudiziario inteso non più come un curatore fallimentare ma come un manager. Il curatore fallimentare prepara il funerale dell’azienda, mentre l’amministratore giudiziario ha il preciso compito di farla vivere e quindi deve avere poteri differenti. A questi aumentati e diversificati poteri farà da contrappeso una disciplina più rigorosa nella individuazione e distribuzione degli incarichi ed una altrettanto rigorosa selezione delle aziende meritevoli, escludendo cioè quelle finte, buone soltanto per riciclare il denaro dei clan».
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