C’è indubbiamente una mitologia della mafia siciliana che alcune ardite ricostruzioni storiche considerano la chiave di lettura di tutti gli accadimenti che riguardano l’Isola, l’Italia e perfino gli Stati Uniti, considerati quasi una sorta di dependance delle cosche di cosa nostra.
Sotto la lente – insieme d’ingrandimento e deformante – di questa visione onnipotente della mafia, per esempio, era inevitabile che un evento di straordinaria importanza strategica da segnare le sorti del secondo conflitto mondiale – lo sbarco in Sicilia delle truppe alleate nel 1943 – fosse stato determinato dai buoni auspici dei mafiosi siciliani che avrebbero rappresentato l’elemento decisivo per la scelta degli alleati di fare sbarcare nell’Isola – e non altrove – il più grande dispositivo militare da sempre visto in movimento sulla faccia della terra.
Facendo un salto di qualche anno e alla luce della logica di questo tipo di ricostruzione, non sarebbe ancora nota la vera dimensione e la partecipazione militare della strage di Portella delle Ginestre nel 1947, con asseriti coinvolgimenti diretti di reduci della X Mas e di Servizi segreti americani.
Attualizzando il paradigma, risulterebbe pacifico e del tutto giustificato storicamente il fatto che oggi l’Isis non può fare attentati in Sicilia perché il territorio è controllato dalla mafia che gli impedirebbe ogni accesso e movimento.
In appoggio a tesi come quelle riportate, capita di leggere alcuni commenti scandalizzati contro alcune opinioni che – per la verità – sembra richiamino evidenze, sia storiche che di cronaca, che, però, vengono additate da alcuni disinvolti commentatori al pubblico ludibrio e messe sul banco deprecabile di coloro che sottovaluterebbero irresponsabilmente la potenza stratosferica della mafia.
In questi casi, le reazioni dei fautori del gigantismo mafioso lasciano intendere connivenze intellettuali da parte di chi sarebbe reo di evidenziare della mafia, piuttosto che l’onnipotenza inarrivabile nei secoli, più banalmente la sua pericolosità sociale sul territorio, rilevabile anche con gli strumenti della ricerca sociale e della storiografia, che, ancorché convincenti sulla base di un giudizio di congruità logica e di prova storica, risulterebbero sicuramente poco suggestivi e non aprirebbero scenari inimmaginabili ai comuni mortali, o studiosi che dir si voglia.
Su questo filo di ragionamento, viene il sospetto che proprio le stagioni più accese dell’antimafia militante, tra tanti fatti positivi, inevitabilmente debbano condurre con esse un retaggio di mancanza di misura che impedisce di accettare che l’equilibrio e il rigore – sia nella lettura dei fatti di cronaca che delle analisi storiche, inevitabilmente opposti ai sensazionalismi di certe ricostruzioni immaginifiche – non significa sottovalutare l’organizzazione mafiosa in quello che è il suo ruolo di violento e prevaricante regolatore sociale, già di per se imponente per capacità di rigenerazione e di controllo costante dei gangli attivi della società.
Probabilmente, accentuare lo sforzo della comprensione oggettiva dei fatti significa constatare, utilmente, che l’immaginifico ha sempre sopperito ai vuoti di analisi, come a quelli esistenziali, e che la razionalità è strumento imprescindibile specialmente quando si trattano fenomeni criminali drammatici e sempre capaci – come un’araba fenice – di risorgere dalle loro ceneri.
Pensare che la decisione degli alleati di sbarcare in Sicilia sia stata determinata dalla presenza nell’Isola della mafia amica, è essenzialmente un fatto di incapacità di considerare le dimensioni incommensurabili tra i fenomeni, da un lato la più grande coalizione bellica mai messa insieme nel mondo, dall’altro un’organizzazione criminale alla periferia del mondo, sia pure con importanti collegamenti con il Nord-America.
La rivelazione di questo gap immenso non può essere certo colmata attraverso il racconto – talvolta reso folkloristico – di episodi che provano normali attività di intelligence e contatti di truppe occupanti con “notabili” – nel senso effettivo del termine – dei territori conquistati, come i mafiosi siciliani che, dopo la contraddittoria e sopravvalutata stretta fascista, vedevano la possibilità di fare valere davanti ai nuovi poteri il loro indubbio carisma tra le popolazioni.
Ma se è pacifico il riconoscimento di questo ruolo di particolare “mediazione sociale” di parecchi mammasantissima locali durante l’occupazione alleata, è assolutamente insostenibile la tesi che è stata la mafia a determinare e consentire lo sbarco sulle coste meridionali dell’Isola.
Come – per arrivare a tempi più recenti – il messaggio contenuto nel titolo di un libro del 1995, curato da due valenti giornalisti come Silvestro Montanaro e Sandro Ruotolo, “La vera storia d’Italia”, che pubblicava la requisitoria di un importante processo svoltosi a Palermo, non sembra sostenibile per il banale motivo che la Storia di un Paese è qualcosa di molto più complesso che non l’influenza nella società, pur importante e significativa, di una asserita relazione di profilo politico-criminale.
Segnare questa distinzione tra un’istruttoria giudiziaria rilevantissima – parte importante della vicenda di un Paese – e la Storia nel suo significato, inevitabilmente molto più vasto e complesso, non significava sminuire un evento giudiziario e sociale di straordinaria importanza, ma solo mantenere rigore analitico, non certo per alimentare vezzi accademici, ma solo per perseguire uno dei modi più efficaci per contrastare tutte le forme di mafia liberando il campo da stereotipi, luoghi comuni, improvvisazioni dottrinarie, confusioni interpretative e tutto quello che un tempo, con espressioni simili si definiva a Napoli, come a Palermo:”facimmo ammuina – ammuinamu”(“facciamo confusione” in un significato ampio).
Come, forse, certi processi eclatanti, per esempio, quello Andreotti – beninteso, concluso tutt’altro che con un’assoluzione piena del potente “zio”- era più utile fosse preceduto e seguito da processi alla famiglia mafiosa andreottiana in Sicilia, con l’acquisizione puntuale di prove legate alle attività politico-amministrative nell’Isola. Sicuramente ci sarebbe stato meno clamore mediatico, ma, con ogni probabilità, sarebbe stato come “pescare nello stagno” del malaffare siciliano, destrutturando un sistema spesso organizzato in cerchi concentrici e, con ogni probabilità, oggi in grado di rimettersi in campo per vie diverse, nuove e tradizionali.
La cultura dell’immaginifico non ha limiti, specialmente quando ci sono possibilità di oggettivi collegamenti e, per esempio, non è una novità anche la paternità attribuita alla mafia di alcune svolte epocali nel Paese ancora più importante del mondo, gli Stati Uniti d’America, come recentemente è anche emerso dalle intercettazioni di alcuni mafiosi del corleonese – invero apparsi tutt’altro che di notevole spessore criminale e ancor meno politico – dove si attribuivano ad una organizzazione criminale in continuità con la loro, la morte del più popolare Presidente americano, John Kennedy.
Infatti, tra l’altro – invero incautamente – gli orfani dei potenti boss corleonesi si dicevano: “Perché a Kennedy chi se lo è masticato. Non ce lo siamo masticati noialtri là in America. E ha fatto, ha fatto le stesse cose che ha fatto Angelino Alfano….”. Ora, intanto, bisogna mettere idealmente in conto, il rivoltarsi nella tomba del povero Kennedy che, anche se nelle analisi storiche revisioniste della sua Presidenza gliene hanno dette tante e di tutti i colori, non poteva certo immaginare di essere paragonato ad un personaggio come Alfano.
Anche per questa vicenda, si tratta di un problema di dimensioni tra i due personaggi e di capacità di distinguere tra un personaggio inserito in un contesto di estrema complessità planetaria, da ben altro personaggio figlio di una squallida storia di clientela politica condotta per generazioni a partire dal contesto del centro devastato della Sicilia.
Non c’è dubbio che, nonostante la nebulosità, mai diradata del tutto, della vicenda dell’assassinio di Kennedy, sembra ormai da tempo – più di un indizio – che la mafia italo-americana abbia giocato un suo ruolo – probabilmente anche operativo – nell’attentato di Dallas al Presidente e avesse più di qualche cointeressenza nell’uscita di scena dell’inquilino del tempo della Casa Bianca. Tuttavia, questo non significa necessariamente che la mafia abbia determinato l’origine e la fine di quel capitolo tragico della vita pubblica americana, perché ben altri poteri, con le loro enormi cointeressenze, avevano interesse a cambiare il corso della politica americana e, quindi, in una misura rilevante, di quella mondiale.
Ma ancora una volta va precisato che questo rifiuto della semplificazione non vuole negare la potenza criminale che – con alti e bassi ed anche con andamento carsico – può raggiunge la mafia nel suo territorio di origine, ma con collegamenti sempre più diffusi.
Se vogliamo continuare a prendere ad esempio la recente vicenda corleonese, si tratta di valutare con rigore ogni situazione ed i suoi protagonisti, distinguendo quanto di attendibile e quanto di millantato o di luogo comune ci può essere in certe colloqui, anche tra mafiosi acclarati.
Magari è più utile concentrarsi sulle loro concrete attività sul territorio e sulla loro capacità di adattabilità e di ricostruzione. Qualsiasi organizzazione, prima di fare dei possibili “salti di qualità”, deve crescere e per questo ha bisogno di un proficuo contesto socio-economico e relazionale.
Ecco, invece di inseguire le rivelazioni di quattro nostalgici ru zu Totò u curtu sui grandi fatti della storia, forse sarebbe più utile provare a delineare la caratterizzazione dell’attuale contesto siciliano e, in questo senso, andrebbe incalzato il Ministro degli Interni Alfano, a partire dall’identificazione della sua famiglia politica e delle relazioni politiche riaperte, sia sul territorio che su vari livelli istituzionali, municipali – come nel caso di un Comune di forte valenza simbolica come Corleone – e regionale, nell’ennesimo governo a guida – si fa per dire – Crocetta.
La Sicilia spesso si identifica in un contesto sociale in cui si agita una cultura dell’evento piuttosto che il perseguimento di obiettivi sistematici e nel quale non si fa una cosa perché ce n’é sempre un’altra più importante da fare.
E questo, purtroppo, spesso vale anche per l’interpretazione dei fatti di cronaca o anche di quelli già consegnati alla Storia che, indubbiamente, ha creato più di qualche confusione.
Si è creata, quindi, una curva di audience per la sempre più vasta platea di “esperti di saperi trasversali” – talvolta improvvisati e con frequenti invasioni di campo, spesso senza alcun titolo – che ha determinato – di fatto – la sostituzione di quelli che prima la mafia la negavano con quelli che oggi le danno dimensioni e influenze oltre ogni misura e contesto.
Anche questo è il segno di una Terra – la Sicilia – “esagerata” e sempre in grado di offrire volti specularmente opposti. Eppure, una realtà complessa non è necessariamente difficile da comprendere.
Probabilmente, per equilibrare utilmente il campo dell’analisi, basterebbe solo avere interesse a conoscere come sono andati i fatti e individuare tutto il resto come – forse inevitabili – eccessi di ambizioni e protagonismi.
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