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Anno giudiziario 2016, l'intervento a Palermo di Scarpinato

L’intervento integrale del Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, all’apertura dell’Anno Giudiziario 2016.

Tenuto conto che il Ministro della Giustizia ci ha accordato il privilegio di partecipare personalmente a questa cerimonia, vorrei prendere spunto, per il mio intervento, dall’incipit della relazione sull’amministrazione della giustizia che egli ha illustrato nella seduta della Camera dei Deputati del 20 gennaio di quest’anno e che mi ha particolarmente colpito.
In quell’ occasione il Ministro ha infatti esordito con queste parole:
“Un paese, una città, un territorio, segnato dai conflitti, sfibrato dalle polemiche, non è nelle condizioni di darsi un orizzonte strategico. Non è in grado di usare al meglio le risorse e le energie disponibili, non è in grado di reperirne di nuove, e di determinare un processo di crescita”.
La gravità dei toni utilizzata per introdurre i temi dell’amministrazione della giustizia, credo non trovi equivalenti in atti similari di altri Ministri della Giustizia dell’Unione Europea.
Ricollegandosi a tale incipit, nel prosieguo della sua relazione alla Camera il Ministro ha in più punti declinato la consapevolezza che nel nostro paese l’amministrazione della giustizia non è riducibile – a differenza che in altri paesi europei – solo ad un settore importante dell’amministrazione dello Stato, atteso che la lezione della storia della nazione dimostra come invece si tratti di un terreno strategico in cui la posta in gioco è la tenuta stessa della credibilità dello Stato e della democrazia.
Questa consapevolezza attraversa come sottotraccia l’intervento e traluce in frasi come le seguenti:
“La giustizia è stata per lungo tempo il terreno di uno scontro, a tratti persino drammatico” […] ” II recupero di efficienza della giustizia non è un tema che debba appassionare solo gli studiosi di organizzazioni pubbliche, ma è una decisiva risorsa politica, per uno Stato che voglia adempiere ai suoi compiti fondamentali”.
E, suppongo, sia proprio in coerenza con tali coordinate, che il Ministro quest’anno ha voluto compiere un gesto di grande rilevanza simbolica: scegliere Palermo come luogo della sua partecipazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Scelta questa che, sempre in quell’occasione, ha spiegato alla Camera esprimendosi nei seguenti termini:
“Non c’ è Stato […] dove la criminalità spadroneggia. Non c’è prospettiva di sviluppo, non c’è crescita civile, non c’ è futuro per le nuove generazioni dove bisogna piegare il capo, oppure tacere, oppure scappare. Non c’ è prosperità dove regna l’incertezza, la paura o la violenza”.
Se abbiamo bene inteso il significato simbolico della sua scelta di essere oggi presente a Palermo, Lei dunque, signor Ministro, ha colto che questo Palazzo di Giustizia non è solo il luogo nel quale — come parimenti avviene nel resto del paese — viene svolto il servizio giustizia, scontando le medesime problematiche altrove pure esistenti, di cui il Presidente della Corte ha già illustrato gli aspetti essenziali, sui quali è superfluo dunque ulteriormente indugiare.
Questo Palazzo è, nella memoria collettiva e nella storia nazionale, anche e soprattutto, uno dei luoghi nei quali si è maggiormente manifestato quel nesso tra questione giustizia e questione dello Stato da Lei colto nella Sua relazione alla Camera, come segno qualificante della vicenda italiana nel panorama europeo.
Questo Palazzo è stato molto di più che una articolazione dell’azienda giustizia, come si usa dire mutuando, a mio parere impropriamente, lessici e concetti del linguaggio mercatista.

E’ stato una postazione strategica nella quale la giurisdizione si è dovuta fare carico, pagando un tributo altissimo, della mission di rifondare la credibilità perduta delle istituzioni, compromessa da perversi intrecci tra politica e crimine, e di difendere la tenuta stessa della democrazia contro i progetti destabilizzanti di potenti e complessi sistemi criminali che inglobano quello mafioso.
Sistemi criminali che, abbiamo ragione di ritenere, continuino a operare nell’ombra, come tra l’altro emerge anche da notizie processuali su progetti di attentati di tale gravità da essere stati portati alla diretta attenzione del Comitato nazionale per l’Ordine e la Sicurezza, al quale, stante l’eccezionalità del caso, ha partecipato, oltre che il Ministro dell’Interno, anche il Ministro Orlando, a cui va riconosciuto il merito di avere profuso un impegno personale e istituzionale senza precedenti per il potenziamento delle misure di sicurezza di questo palazzo di Giustizia.
La magistratura di questo distretto è stata segnata da una storia drammatica che, dopo la conclusione della stagione stragista del 1992-1993, abbiamo sperato fosse finalmente conclusa e consegnata al passato, per inaugurare una nuova fase nella quale fosse possibile mantenere una promessa-scommessa sul futuro nella quale abbiamo fortemente creduto insieme alla popolazione onesta di questa regione: la promessa che, disarticolati i gangli vitali della criminalità mafiosa ed i suoi risalenti legami con la politica collusa, fosse possibile coniugare sviluppo e legalità.
La promessa di rifondare uno statuto della cittadinanza impemiato su diritti garantiti al posto di uno statuto della sudditanza fondato sulla promessa di sottomissione a vari padrinati politici e mafiosi.
Ma se oggi osserviamo la realtà sociale fuori da questo palazzo, dobbiamo prendere atto che questa promessa, che pure tante sperante aveva alimentato, non è stata mantenuta.
Dal rapporto Istat 2015 risulta che la Sicilia è oggi la regione più povera del paese, con il 54,4,% della popolazione a rischio di povertà e, nel contempo, la regione che ha il più alto indice di disuguaglianza economica tra i suoi abitanti a livello nazionale ed europeo.
Una situazione in grado di fare implodere l’intero tessuto sociale dell’isola.
Se questo è il contesto, non meraviglia come, a fronte della buona tenuta dell’azione di contenimento del crimine mafioso, che pure continua a mantenere la propria presa sui territori, pronto a riespandersi pienamente non appena si abbassi la guardia. si assista, di contro, ad un arretramento sul terreno della cultura della legalità, ad una preoccupante escalation della illegalità nei più svariati settori e, di conseguenza, ad un disillusione nei confronti del futuro.

Disillusione che tanto più si aggrava, perché non solo non è stata mantenuta la promessa di coniugare legalità e sviluppo, ma anzi avanza una legalità di nuovo conio, da taluni definita “legalità sostenibile”, che subordina e condiziona i diritti sociali costituzionalmente garantiti, quali quelli al lavoro e alla salute, alle esigenze e ai diktat imposti dai c.d. mercati, cioè. in sostanza, dai massimi detentori del potere economico transnazionale.
Una legalità sostenibile che costringe vasti strati della popolazione giovanile ad accettare dal mercato lavori precari sottopagati e a soggiacere a condizioni di sfruttamento, senza più adeguate tutele e senza proiezioni nel futuro.
Troppi, tanti giovani oggi “piegano il capo, tacciono oppure scappano” migrando all’estero, perché ad antiche prevaricazioni, ne sono subentrate di nuove, parimenti in grado di uccidere la speranza nel futuro.
Siamo riusciti a fronteggiare il crimine mafioso, ma abbiamo scoperto che ciò non basta, perché si possa affermare, senza rischiare di scadere nella retorica, che la cultura della legalità può celebrare i propri trionfi e ritenere compiuta la propria missione.
Oggi parlare dinanzi a platee giovanili di disoccupati e precari senza speranze nel futuro. delle splendide sorti che loro riserva la legalità è impresa sempre più ardua.
La realtà fuori da questo palazzo mette a nudo che non solo l’amministrazione della giustizia non riesce a promuove maggiore giustizia sociale, ma che, per di più, il sistema penale ordinario appare sempre meno in grado di assolvere adeguatamente lo scopo di prevenire il crimine tramite la deterrenza delle pene minacciate, di reprimerlo riaffermando il principio di responsabilità individuale con l’irrogazione della pena, e, in buona misura, anche di assolvere la funzione rieducatrice di cui all’art 27 della Costituzione.
Ho fatto non a caso riferimento al sistema penale ordinario, giacché invece lo speciale regime giuridico penale messo a punto dal legislatore per il contrasto al crimine organizzato, ha per fortuna sottratto questo importante settore allo stesso destino di impotenza riservato invece alla giurisdizione penale ordinaria.
Basti solo considerare al riguardo che, ad esempio, l’art. 157 c.p. prevede il raddoppio dei termini di prescrizione per tutti i reati di mafia.
Nella relazione scritta della Procura Generale si da atto dell’impennata statistica registrata in alcuni dei più rilevanti settori del crimine in questo distretto:

+25% per i delitti contro la P.A., + 48 % per le estorsioni ivi comprese quelle poste in essere da gruppi criminali non appartenenti a Cosa Nostra, +49 % per i reati in materia di traffico di stupefacenti, +22 % per i furti, + 79 % per il reato di usura, + 60% per i reati edilizi. + 34 per le lottizzazioni abusive.
Tra i numeri in crescita vi sono poi quelli dei reati prescritti per un totale complessivo del +21%.
E in crescita è anche il fenomeno dei reati sommersi, cioè dei reati che non vengono denunciati dai cittadini per una persistente sfiducia nelle istituzioni, fenomeno questo che caratterizza il settore delle estorsioni dove continuano ad essere rari i casi di denuncia spontanea, il settore dell’usura e quello dei reati contro la P.A. nei quali resta molto elevato il timore di subire ritorsioni da parte dei complici rimasti occulti.
E persino nei casi di comuni rapine, si verificano sempre più numerosi casi di cittadini rapinati che in dibattimento si tirano indietro, con varie scuse, al momento di confermare le accuse e il riconoscimento dei rapinatori già denunciati.
Si converrà che magra consolazione è registrare che, comunque alla fine dell’anno giudiziario il saldo dei processi definiti rispetto a quelli sopravvenuti è più o meno in pareggio.
Un approccio proiettato solo sui fatturati globali e sui saldi finali, elude una domanda fondamentale. Ma tutto questo enorme apparato alla fine quanta e quale giustizia reale produce fuori dal Palazzo? Se andiamo alla sostanza dei problemi, dobbiamo prendere atto che vari indicatori attestano come persista e si aggravi uno stato di crisi della giustizia penale ordinaria che in parte è riflesso di una più generale crisi del paese che alimenta I’ illegalità di sussistenza, ma, in larga misura. è ascrivibile all’ inadeguatezza delle politiche criminali adottate in passato che alimenta il proliferare del criminalità ordinaria e, in particolare, di quella del profitto.
Il sintomo più evidente di tale inadeguatezza è il deficit di effettività della giustizia penale ordinaria su tutti i versanti.
Quanto al versante della prevenzione, è superfluo ripetere come l’attuale regime giuridico della prescrizione, unico nel panorama mondiale, sortisca l’effetto di depotenziare la reale efficacia deterrente dell’amplissima fascia di reati puniti con la pena sino a sei anni, la gran parte dei quali destinati a prescriversi perché accertati a distanza di anni dalla loro consumazione, con un tempo residuo prima della loro estinzione talmente esiguo da rendere impossibile percorrere tutti i gradi del giudizio, pervenendo a sentenza definitiva.

Il crollo statistico delle condanne definitive per reati contro la P.A. rientranti in tale fascia dopo l’entrata in vigore della Legge Cirielli, è solo uno degli indici più eloquenti dell’arretramento dello Stato su questo e su altri fronti cruciali, e del conseguente consolidamento di una sorta di statuto impunitarió, di cui la crescita costante dei reati in tali settori costituisce un ulteriore e definitivo riscontro.
Sono ormai in buona misura ridotti a meri simulacri di un diritto penale condannato all’impotenza tanti reati che costituiscono una trincea avanzata e un presidio contro il dilagare della corruzione: l’ abuso di ufficio (art. 323 c.p.), [omissione di atti di ufficio (art. 328 c.p.), con i quali si realizzano condotte funzionali alla corruzione e concussione, i reati di turbata -libertà degli incanti (353 c.p.), di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (353 bis c.p.) mediante i quali si manipolano le pubbliche gare di appalto, i reati truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ( art. 640 bis c.p.) mediante i quali si predano i fondi pubblici destinati allo sviluppo, il reato di frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.) mediante il quale si realizzano opere pubbliche con cemento depotenziato, autostrade che crollano per la scarsa qualità dei materiali costruttivi fornito, il reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) mediante il quale gruppi di pressione e potenti lobby interferiscono nelle decisioni di destinazione delle risorse pubbliche.
E si potrebbe continuare con un lungo elenco.
Le statistiche attestano che il depotenziamento della funzione deterrente del diritto penale ordinario e persino di quella repressiva, riguarda anche i reati più gravi contro la P.A., quali la concussione, la corruzione e altri reati dei colletti bianchi puniti con pene superiori ai sei anni in materia di criminalità economica e fiscale.
Dall’analisi della composizione della popolazione carceraria compiuta dal DAP emerge infatti che il numero complessivo dei detenuti in espiazione definitiva per reati in parola è statisticamente irrilevante e assolutamente incompatibile con la dimensione di massa della corruzione, della criminalità fiscale e quella economica.
Basti solo considerare, per avere una pietra di paragone, che in Germania i detenuti per reati economici e finanziari sono circa 8 mila mentre in Italia si aggirano intorno ai 200.
La larga compromissione della funzione di prevenzione e di repressione del’ sistema penale ordinario, deriva dal fatto che l’efficacia deterrente del reato non dipende dall’entità della pena minacciata in astratto, ma dalla concretezza del rischio di essere scoperti e del costo penale in caso di condanna.

Se i vantaggi economici conseguenti alla consumazione del reato sono molto superiori al rischio e al costo penale, non esiste alcuna reale controspinta alla consumazione dei reati a fronte dei vantaggi che ne conseguono.
Su un piatto della bilancia la possibilità di facili e ingenti arricchimenti, sull’altro il rischio calcolato di essere scoperti solo a distanza di anni, lucrando una facile prescrizione che non solo garantisce l’impunità, ma garantisce anche l’acquisizione definitiva dell’illecito guadagno che non può essere confiscato.
Come è noto, anche nei casi nei quali la Cassazione pur dichiarando la prescrizione accerta la colpevolezza, non è possibile la confisca per equivalente sul patrimonio illiquido.
Per di più nei rari casi nei quali si perviene ad una condanna definitiva, il costo penale è irrisorio rispetto ai vantaggi patrimoniali conseguiti, atteso che nel peggiore dei casi, tale costo consiste nel sottoporsi ad una misura alternativa alla pena carceraria, spesso dopo avere messo in salvo l’arricchimento conseguito, facendolo sparire in tutto o in parte nei paradisi fiscali.
E a proposito della concreta applicazione delle misure alternative, sussistono dubbi anche in ordine alla reale capacità del sistema penale di assolvere pienamente la funzione di rieducare i condannati.
La c.d. legislazione sfollacarceri è stata emanata in via di urgenza per sottrarre il paese all’irrogazione di sanzioni europee dopo la sentenza Torreggiani della Corte EDU con l’obiettivo prioritario di ridurre il numero globale dei detenuti sotto la soglia della capienza regolamentare.
Raggiunto tale scopo, non sono poi state investite le risorse necessarie perché le misure alternative invece di essere piegate solo a fini deflattivi, potessero assolvere lo scopo prioritario della risocializzazione dei condannati estromessi dal circuito carcerario.
Come risulta dalla relazione del Presidente della Corte, mancano gli educatori, gli assistenti sociali, mancano le offerte di lavoro, scarseggiano i fondi per le proposte formative, soprattutto quelle relative ai corsi scolastici e ai corsi professionali.
Mancano persino i braccialetti elettronici per garantire la sorveglianza dei detenuti ai quali, a seguito delle riforme accennate, non è più possibile applicare la misura della custodia cautelare in carcere, ma solo quella degli arresti domiciliari da realizzarsi per l’appunto con i braccialetti elettronici.

Da qui una delle concause del balzo statistico (+ 49%) dei reati di spaccio di stupefacenti, posti in essere in molti casi da spacciatori già agli arresti domiciliari e, di fatto, fuori controllo.
Alla prova dei fatti, in buona parte si sono sfollate le carceri, ma è elevato il rischio che si siano contemporaneamente riaffollate le strade e le città di condannati per nulla rieducati, per nulla reinseriti socialmente, e, nella sostanza, riconsegnati a un destino di emarginazione sociale e di precarietà esistenziale, anticamera del loro pendolare ritorno al crimine anche come forma di autosussistenza.
Per di più la c.d. legislazione sfollacarceri ha conseguito l’ulteriore effetto collaterale di deprimere ulteriormente ai minimi termini il costo penale per i reati contro la P.A. e per altri reati dei colletti bianchi.
Nei pochi casi nei quali si riesce a pervenire a sentenze definitive, senza che i reati siano falcidiati dalla prescrizione, il costo penale consiste infatti, come accennato, nella sottoposizione di condannati appartenenti alla classe dirigente, altamente scolarizzati e inseriti nei piani alti della piramide sociale, a misure alternative che dovrebbero risocializzarli mediante l’istruzione e il lavoro, e concretamente, ad esempio, mediante la frequentazione per qualche pomeriggio la settimana di centri sociali di assistenza agli anziani o il riordino di biblioteche pubbliche.
Il diritto penale continua tutt’oggi ad essere pensato e costruito avendo come paradigma pressoché esclusivo un criminale tipo appartenente alle fasce popolari socialmente emarginate e sottoculturate, da risocializzare appunto mediante l’istruzione ed il lavoro.
Si rimuove così la realtà, attestata da migliaia di processi, del carattere interclassista del crimine e del protagonismo al suo interno di una vasta platea di soggetti di elevato status sociale e culturale, nei confronti dei quali una politica criminale che punti solo su una generalizzata e indiscriminata illusione correzionalista nei termini accennati, è condannata all’impotenza.
Per questi e altri motivi, Signor Ministro come dicevo all’inizio del mio intervento sono rimasto molto colpito dall’incipit della sua Relazione al Parlamento, perché condivido la sua descrizione dell’Italia come un paese “sfibrato” che “non è nelle condizioni di darsi un orizzonte strategico”
Ma per gli stessi motivi, come ho tentato sin qui di spiegare, non mi sento di poter condividere le sue proiezioni ottimistiche sul futuro affidate ai progetti di riforma allo studio, pur dandole atto dell’impegno personale da Lei profuso in altri settori e dei passi compiuti nella direzione della depenalizzazione, del potenziamento della giustizia riparativa. della archiviazione per la tenuità del fatto. Se veramente vogliamo darci un “orizzonte strategico” non basta solo azionare le leve del deflazionamento penale, bisogna contemporaneamente e vigorosamente azionare tutte le altre leve necessarie per restituire effettività e serietà al sistema penale ordinario, per rispristinare cioè la sua capacità di irrogare in concreto le pene minacciate per i reati e di riaffermare il principio di responsabilità individuale, ristabilendo la fiducia dei cittadini nella capacità dello Stato di fare rispettare la legge.
In questa direzione Signor Ministro l’attende un compito difficile e siamo consapevoli che Lei deve misurarsi con resistenze passive e diversità di orientamenti anche all’interno dello schieramento politico che sostiene il governo.
Tanti sono i terreni sui quali si deciderà nell’immediato futuro il destino della giustizia nel nostro paese. Per citarne solo alcuni tra i tanti: la riforma dell’ordinamento giudiziario, quella delle intercettazioni, e quella cruciale, per i discorsi sin qui svolti, sulla riforma della prescrizione.
A quest’ultimo riguardo, ci permettiamo di formularLe un appello che dia un senso ancora più pregnante all’importante gesto da Lei oggi compiuto scegliendo Palermo in segno di sostegno per lo sforzo qui posto in essere per difendere la democrazia e lo Stato di diritto.
Le chiediamo di valutare la possibilità di farsi promotore di una iniziativa di legge che preveda l’inserimento dei più rilevanti reati in materia di corruzione, nell’elenco dei reati per i quali l’art. 157, sesto comma, c.p. prevede il raddoppio dei termini di prescrizione.
Se qui a Palermo avessimo avuto per contrastare la mafia gli stessi strumenti disponibili contro la corruzione, lo Stato avrebbe perduto da tempo la sua battaglia.
Siamo riusciti a fronteggiare il crimine mafioso solo perché il diritto penale antimafia ci consente di mettere in campo norme in deroga a quelle ordinarie tra cui, appunto, l’art. 157, sesto comma, c.p.
Nel corso degli anni il legislatore ha inserito nell’elenco di cui all’art. 157 c.p. molti altri reati oltre a quelli di mafia, tra cui delitti colposi di danno (art. 449 c.p.), violenze sessuali di vario tipo, e persino il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.).
Nel maggio del 2015 con la legge n. 68 ha inserito anche tutta l’ampia categoria dei reati ambientali.

Si converrà che ammettere un regime di prescrizione raddoppiata per i maltrattamenti in famiglia e non ammetterlo per i reati più gravi contro la P.A. non sembra declinare una politica criminale coerente e razionale.
Una iniziativa di tal genere da parte Sua sarebbe un importante segnale per iniziare a ridare effettività al sistema penale almeno su questo fronte strategicb, inaugurando una corsia preferenziale che costringa tutte le forze politiche ad assumersi le proprie responsabilità dinanzi al paese.
Sarebbe, per concludere, anche un modo per rinsaldare quella fiducia nei confronti dello Stato, così qui duramente riconquistata con il sacrificio dei nostri caduti, e che, per vari motivi, rischiamo possa oggi nuovamente smarrirsi in un paese “segnato dai conflitti, sfibrato dalle polemiche, che non è nelle condizioni di darsi un orizzonte strategico”.

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