Finiva dieci anni fa, l’11 Aprile del 2006, la latitanza di Bernardo Provenzano. E’ durata 42 anni. Era scomparso nel nulla dopo una sparatoria a Corleone. Il boss fu catturato in una masseria a Corleone, immerso in un contorno di carte e di pizzini, la Bibbia accanto, rosari appesi al collo. Un’operazione condotta da un pool di magistrati della Procura di Palermo che oggi lavorano con compiti diversi a Roma (Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Marzia Sabella) e da un gruppo di investigatori guidati da Renato Cortese, ora a capo del Servizio centrale operativo della polizia.
Da oltre due anni Provenzano giace in un letto d’ospedale del reparto ospedaliero del carcere San Paolo di Milano. Immobile da mesi, il cervello, dicono le perizie, distrutto dall’encefalopatia; si deve nutrire con un sondino nasogastrico; pesa 45 chili. Ha 83 anni; il suo cuore – si citano sempre le perizie mediche – continua a battere, ma ha perso la cognizione dello spazio e del tempo. In una parola, è un vegetale.
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Sulla scorta delle polemiche per l’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina, oggi Giovanni Bianconi, sul Corriere della Sera, si occupa dei rapporti tra Provenzano e i suoi familiari, con i pizzini scambiati fino all’ultimo con moglie e figli:
«Situazione peggiore che se fosse morto»
I frammenti di quell’inchiesta svelano anche i rapporti di Provenzano con la moglie e i figli, che a differenza di quelli di Totò Riina non sono stati mai processati né condannati per mafia. Angelo, oggi quarantenne, parla di sé e di Cosa nostra ai turisti americani in tour, ed è «amministratore di sostegno» del padre detenuto al “41 bis”, considerato incapace di badare a sé stesso; Francesco Paolo, che di anni ne ha 34, ha studiato in Germania e ottenuto in passato una borsa di studio statale che suscitò qualche polemica. Storie diverse di ex ragazzi che hanno avuto l’esistenza condizionata dal papà capomafia ricercato da prima ancora che loro nascessero, preso con le mani tra i pizzini attraverso i quali governava le cosche. Loro stessi, Angelo e Francesco Paolo, ne parlano in un’altra conversazione, intercettata a bordo di una motonave dai poliziotti che cercavano indizi per arrivare al rifugio del padre. Era la notte del 25 settembre 2005, e i due fratelli viaggiavano da Palermo a Genova. «Io non l’ho mai detto a nessuno – confessò Angelo –, o forse una volta a una persona. Ma quanti si sono resi conto che la situazione che abbiamo vissuto noi è addirittura peggiore di quella di avere un padre che è morto». E parlò delle difficoltà della madre, Saveria Palazzolo, vissuta al fianco del boss fino al 1992, improvvisamente ricomparsa insieme ai figli a Corleone alla vigilia delle stragi di mafia che uccisero Falcone e Borsellino. «Non ci credo che non si rendeva conto – diceva ancora Angelo – e non mi voglio riferire a prima; io mi riferisco da quattordici anni a venire qua». Cioè proprio a partire dal ’92, quando il boss fece emergere la famiglia dalla clandestinità e proseguì la latitanza in solitudine.
Il pizzino alla moglie «Fai spremuti d’aranci»
Da allora i contatti tra il Padrino e i suoi cari divennero soprattutto epistolari, per ragioni di sicurezza; e gli scambi, con i tempi di un “servizio postale” molto particolare, sono proseguiti fino alla vigilia dell’arresto, come dimostrano proprio ipizzini trovati nel 2006 a Montagna dei cavalli. Pieni di pensieri affettuosi e di piccole questioni quotidiane: salute, cibo, radio e televisione che funzionano poco e male. «Amore Mio Carissimo – scriveva Binnu a Saveria dieci giorni prima della cattura, nel suo italiano incerto – Con gioia ho ricevuto tue notizie. Mi dispiace saperti Raffreddata, e che per conseguenza stai poco bene. Dovessi cercare di cautelarti e non darci tu occasione. Fai spremuti d’aranci con abbondante Miele… non preoccuparti se non hai potuto fare niente anzi pasta a forno non me ne mandare». La moglie gli rispose tre giorni più tardi: «Vita mia non so se ai sentito quello che hanno detto su di te io ti mando i giornali… Amore a me dispiace che ancora non ho le cose pronte e che non ti mando niente ma spero quando salgo ti mando tutto in merito all’agnello se non creamo problemi dopo Pasqua se ne parla».
Matteo Messina Denaro e le richieste di «pizzo»
Nello stesso periodo Angelo scrisse al padre: «Carissimo papà spero che la presente ti trovi in ottima salute come posso dirti di noi tutti. La televisione non si è sfasciata ma c’era un filo nell’antenna lento, poi se dovesse capitare di nuovo che cambia lingua premi il tasto C/E/P fino a quando sul video non compare la scritta ENGLISH». Provenzano gli rispose qualche giorno dopo: «Senti vi ho mandatol’rradio che si è guastato se lo poteti fare agiustare. Fatevi spiegare il funzionento per regisrare. Poi Angelo io la televisione non l’ho ticcata da ora l’ho ricevuto. C’è sempre il contrasto? e la mancanza Auduio, io ho solo premuto il tasto video ed è scomparso tutto…». Contemporaneamente, con gli altri boss il Padrino trattava ben più rilevanti affari di mafia, estorsioni e appalti. Come nella lettera di Matteo Messina Denaro, che il 30 settembre 2005 gli scriveva, tra l’altro: «C’è l’impresa ‘Gruppo Costruzioni Chinnici Rocco Antonio’ di Belmonte Mezzagno che ha preso un lavoro a Castelvetrano, si tratta di una strada, per l’importo di 1 milione di euro (circa 2 miliardi di vecchie lire), se per favore può farli mettere a posto. Aspetto una sua risposta». Che arrivò verso dicembre: «Al momento non c’è nessuno. Però se haiaccui mandarci?… Ripeto non ho più condatti con nessuno di quel paese». Erano stati tutti arrestati, e poco dopo toccò anche lui, Binnu Provenzano. Matteo Messina Denaro, invece, è ancora latitante.
Dieci anni fa l’arresto di Bernardo #provenzano. La fine di una latitanza. #DormonoSullaCollina @ilSaggiatoreEd pic.twitter.com/OtCc5l4BI0
— Giacomo Di Girolamo (@il_volatore) 11 aprile 2016
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