Oggi, mentre vedevo la graduatoria al Pc e mi vedevo trasferito, cercavo un’immagine, uno spot, un ex libris che potesse rappresentare questi miei anni qui in Sicilia. Allora fotogrammi, flash, si affollavano e si rincorrevano lungo la pellicola di questo cortometraggio e alla fine un’instantanea si è fissata su uno sguardo, quello dell’Ignoto Marinaio del museo Mandralisca di Cefalù. Mi chiedevo il perché? Che c’entra Antonello da Messina con la procura, con le indagini, con gli arresti, con gli imputati o le vittime? A chi somiglia? Al mafioso della campagna di Corleone o a quello dei quartieri alti della borghesia ripulita, al cancelliere di destra o a quello di sinistra, al contadino, al magistrato e al principe del foro; qual è la sua condizione sociale e la sua umanità? È un nobile o un plebeo? Un madonita o un ex operaio della Fiat? Un pittore, un poeta, un killer? Impossibile da capire.
Somiglia, ecco tutto.
Quel volto luminoso, quel sorriso pungente ed amaro, sornione, di uno che molto ha visto e molto intuisce, l’ho colto spesso in tante persone che sono entrate nella mia stanza o che ho incrociato in caserma, per strada, in udienza, in carcere, sul parquet, sull’erbetta o al bancone di un bar.
In volti e sguardi che si difendevano dal dolore della conoscenza o dal pericolo della pietà. E occhi come i suoi, piccoli e virili che irrompono sotto l’arco del sopracciglio, tante volte hanno incrociato i miei. Parlo di uomini, di storie, di racconti, di drammi, di gioie. Senza nome, quelli non contano.
Ignoti, appunto, come quel sorriso del marinaio, del marinaio che è in tutti noi. Enigmatico, allusivo, consapevole, ironico, malinconico pur nell’eco di una avvertita soddisfazione.
Ben gli si confà, a lui come a quelli che ho incontrato in questi anni, la definizione che Sciascia dà dei siciliani: “sono chiusi, sospettosi, sofisti; amano contraddirsi e contraddire, complicare le cose con l’astuzia e risolverle con secco intelletto; sono sensuali, avidi, violenti, tesi al possesso della donna e della roba, ma in ogni loro pensiero è annidata, accettata, vagheggiata la morte.” E con essa e per questo, la consapevolezza della bellezza e della profondità della vita.
E alla fine ho capito perché proprio l’Ignoto Marinaio, perché ho ritrovato e scoperto in quel volto che ti segue in ogni angolo della sala da cui lo guardi (risposta siciliana alla Gioconda) quella cifra che ho sempre inseguito e cercato, dal lavoro alle relazioni, e cioè quell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri umani coprono la pietà. Ironia nel fare, nel dire, nell’omettere, nel rappresentare, nel disfare, nell’imbronciarsi, nel misurare, nel provocare, nel cercare, nel ricercare, nello scrivere, nel teatrare, nel tirare.
Ironia è il colore essenziale della gioia del distacco, della capacità di guardare le cose con disincanto; l’ironia consente di non aderire al dramma, di alleggerire, di guardare i problemi appesi a un cesto di basket, il che aiuta delle volte a risolverli. Così come la bellezza dell’arte in generale e di un quadro in particolare, se è vero che non deve servire a niente, basta a se stessa e non ha bisogno di null’altro per essere ispirata o esistere, talvolta consente di purificare ed ingentilire le passioni e per chi si occupa di delitti, a volte orrendi, a volte inspiegabili, non resta altra soluzione che aggrapparsi alla sua funzione salvifica.
E quel sorriso leggero è come un sottile crinale sui cui versanti si può facilmente scivolare, da un lato o dall’altro. Al di qua del lieve sorriso si cade nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là di quel lieve sorriso si cade nella risata sarcastica, scomposta, impietosa, nella meccanica e liberatrice risata comune a tutti gli uomini.
E questa ricerca continua dell’equilibrio la devo all’Ignoto Marinaio.
*Questo articolo è stato scritto da Giacomo Urbano, magistrato ancora in servizio alla procura di Termini Imerese. Di origine casertana Giacomo tornerà nei prossimi mesi a lavorare in Campania. Il pezzo che abbiamo pubblicato è un appello ma è soprattutto un gesto di amore per una terra, la Sicilia, che spesso gli8 stessi siciliani non riescono ad avere.
Giacomo scrivi troppo bene.peccato che te ne vai.
chi ha incontrato te in questi anni in Sicilia potrebbe invece scrivere del tuo sguardo. di quegli occhi che hanno osservato, intuito, sorriso, condiviso, ma con umiltà e con il massimo rispetto di quelle funzioni così fondamentali che ora ti appresti a svolgere nella tua terra natia.
Dopo aver letto questo articolo, sono rimasto sorpreso positivamente di questa vena poetica, e mi congratulo. In questi anni, diverse volte ho avuto modo di relazionarmi con il Dr.Urbano, incontrare il suo sorriso, e non posso che evidenziare la mia stima personale per la sua persona e mi dispiace che dovrà lasciare la Procura di Termini Imerese.
davvero una bellissima riflessione sulla Sicilia e i siciliani, che ho postato su fb per diffonderla, e anche a me dispiace perdere una persona di tanto valore, a cui però faccio un mondo di auguri per il suo lavoro … altrove.
Bravo Giacomo;
scopro di te che conosci oltre naturalmente la tua professione, molto del vivere e del sentire. E sei capace di rendere e trasmettere cio’ che senti. Comunicare sensazioni e sentimenti e’ cio’ che veramente distingue l’apprendimento degli uomini da quello di altri animali e dall’informazione di cui le macchine dispongono.
Scrivere cosi’ non e’ da tutti.
Riflettici. Potrebbe rivelare opportunita’ ignote.
Franco.