CATANIA – Responsabile per Carige delle aree Sicilia e Puglia, Rosario Chiaramonte appartiene a un gruppo bancario che piu’ di tutti gli altri conosce il mercato dello shipping e la logistica. E’ lui che si incarica di puntualizzare quali sono i nodi da sciogliere e soprattutto quali sono le condizioni per operare bene e in sintonia con il sistema bancario. Lo fa nell’ambito di Nort South Conference in corso a Catania. “Se esaminiamo oggi le condizioni di mercato del settore armatoriale – dice Chiaramonte -, rileviamo una forbice tra andamento della costruzione di navi e domanda di traffico. Il traffico, a causa della congiuntura economica mondiale, langue, le navi viaggiano con il 60% della capacità utilizzata, ma le compagnie di navigazione continuano a ordinare e ritirare navi sempre più grandi e tecnologicamente sofisticate. Per capire le dinamiche interne di questo fenomeno è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi sotto la pressione di una competizione serrata che assorbe tutta l’attenzione e le risorse delle compagnie di armamento (fra cui, ricordiamo le principali, Maersk, MSC e CMA-CGM). In termini di costi unitari una nave grande presenta dei vantaggi; dunque, secondo i manager delle compagnie, le economie di scala funzionano in questo business e sarebbe corretta la corsa al gigantismo.
E invece?
Secondo la più recente edizione dello studio Drewry datata ottobre 2012 (che ricordo essere una tra le maggiori società al mondo nel campo degli studi e ricerca in campo marittimo) sui costi operativi delle navi portacontainer, questi sono passati dall’indice 100 del 2000 all’indice 170 del 2010 e dopo una breve discesa dovrebbero arrivare allo stesso livello nel 2015. Si intuisce che questo dipende in massima parte dall’aumento del costo del carburante. In genere l’aumento del carburante viene scaricato sul cliente secondo il meccanismo della surcharge. Poiché sono in arrivo degli inasprimenti sulle normative riguardanti le emissioni ed in particolare sull’obbligo di utilizzare carburanti a basso contenuto di zolfo, sensibilmente più costosi, in determinati mari del mondo, il valore relativo di una nave oggi viene sempre più calcolato sui suoi bassi consumi di carburante.
C’è un costante aumento di costi, sembra di capire.
Sull’evoluzione del mercato “industriale” dello shipping abbiamo informazioni in tempo reale che riguardano i noli, rates. Attenzione però, si tratta in genere di noli base, sono escluse le surcharges, si dovrebbe ragionare invece sempre in termini di all-in rates per capire se le compagnie riescono a coprire i costi e guadagnarci. Un periodo di noli bassi per eccesso di offerta o per calo della domanda può portare a forti perdite operative. Così è stato nel 2011 e nel primo trimestre del 2012 a causa di eccesso di offerta, nella seconda metà del 2012 a causa del calo di domanda, in particolare nell’eurozona e nel Mediterraneo.
Che previsioni è possibile fare?
In linea generale 2010, 2011 e 2012 sono stati anni di bassi profitti (più corretto sarebbe dire di risultati operativi deludenti). Se il calo della domanda non dipende dalle compagnie marittime, è invece loro responsabilità aver creato eccesso di offerta, cioè di aver messo in servizio troppe navi e di aver provocato in tal modo un crollo dei noli e, inoltre, di aver continuato a ordinare nuove navi ai cantieri e di aver ritirato tutte quelle in consegna. Una strategia, questa, adottata dalle compagnie già dal 2011 ed alla quale non hanno ancora saputo reagire in maniera organica ma solo episodica.
Sono state adottate contromisure?
Le compagnie all’inizio hanno pensato di attenuarne gli effetti con lo slow steaming, che, riducendo la velocità di crociera delle navi, in effetti provoca una riduzione di capacità. Con il perdurare della crisi, hanno poi cominciato a tagliare alcuni servizi, a ridurre il numero delle navi in servizio, a mandarne alcune in disarmo o in demolizione, mentre nel mercato della domanda la recessione cominciava a mordere, soprattutto nei grandi paesi marittimo-portuali di Grecia, Italia e Spagna. Ma decisioni strategiche di lungo respiro le compagnie non le hanno prese.
Cosa c’è dunque, dietro questo comportamento?
Proviamo ad analizzare. Sulla rotta Far East-Nord Europa/Mediterraneo, agli inizi di novembre 2012 erano impiegate 258 navi su 24 differenti servizi. La capacità media di queste navi è di 10.000 TEU. “Un servizio sulla rotta Asia-Europa richiede 12 navi di almeno 12.000 TEU ciascuna”, dichiarano dalla CMA CGM a “Containerisation International” del 25 ottobre 2012, ciò equivale a un investimento da 1,4 miliardi di dollari, ma per essere competitivi di servizi bisogna averne almeno tre, quindi si arriva a 4,2 miliardi. Poi ci sono i container vuoti da assegnare alle navi, 18.000 TEU ciascuna e sono altri 400 milioni di dollari.
Cifre consistenti, risorse che possono essere fornite solo con il supporto del sistema bancario, il rapporto con le banche diventa vitale.
Già. Nei rapporti con le banche le compagnie fanno valere la quota di mercato, il valore degli asset le previsioni di crescita. La quota di mercato, come argomento principe del rating bancario, spiega la corsa ad acquisire volumi ed a mettere in servizio capacità, offerta di stiva, a costo di praticare tariffe da dumping. La valorizzazione degli asset spiega la corsa all’acquisto di navi. Di fronte all’evidenza della recessione mondiale, questi asset probabilmente dovranno essere svalutati, com’è capitato alle proprietà immobiliari durante la bolla immobiliare.
Quindi una chiave di lettura per capire i comportamenti dello shipping è quella di ragionare in termini di finanza piuttosto che in termini “industriali” e che non sono le “economie di scala” a proposito del gigantismo navale a determinare le scelte di strategia, in quanto altre sono le logiche. Giusto?
Per capire le cifre in gioco riporto il caso citato sulla stampa specializzata nell’agosto 2012 della Maersk che ha pagato ai cantieri sudcoreani 190 mln di dollari per una nave da 18.000 TEU Triple E-Class, cioè dotata dei dispositivi d’avanguardia più sofisticati, di motori dal minimo consumo possibile allo stato attuale delle tecnologie.La cantieristica mondiale viene sussidiata dai vari stati, in particolare nel Far East, si tratti di Corea del Sud, di Cina, Giappone o di altri. Mediante questi sussidi, erogati per mantenere l’occupazione o semplicemente per mantenere la bandiera nazionale su certi mercati, questi cantieri possono praticare prezzi che appena coprono i costi di produzione o proprio sottocosto. Qualche cantiere europeo regge ancora sul mercato delle portacontainer solo perché si iper-specializza. La nave, una volta acquistata, viene iscritta in bilancio al valore d’acquisto, le sue caratteristiche tecnologiche ne determinano il valore di mercato assai più che la capacità. Non vale tanto perché è in grado di portare più container, ma perché appartiene a un’epoca tecnologica superiore. I cantieri le sfornano a prezzi sempre più convenienti, le compagnie le ritirano e ne iscrivono in bilancio il valore con la speranza che l’anno successivo potranno aggiornarlo cresciuto di un tot. La corsa al gigantismo sembra quindi una sfida sulla lama del rasoio tra valori patrimoniali: è un modo per indebolire l’avversario, alzando sempre più l’asticella non tanto in termini di capacità ma in termini d’innovazione tecnologica. Non solo, noi dobbiamo sempre ragionare all’interno di logiche proprie di politica finanziaria di colossi come le top 20 del traffico container che, semplificando, è quella di presentare una situazione patrimoniale che consenta loro di garantire i crediti bancari: posta la questione in questi termini, l’acquisto di una nave nuova e tecnologicamente sofisticata rende la compagnia più forte nei confronti di una banca.
Questa strategia sembra fallimentare, giusto?
Questa dinamica puramente finanziaria porta alla sovra-capacità. Se con una nave in più s’intasa un’offerta di stiva già in eccesso, con conseguente crollo dei noli, questo si ribalta sulla gestione operativa. Ma nel frattempo la compagnia si può vantare di aver messo in servizio navi dal costo unitario inferiore per unità di carico. Questa è l’idea di economia di scala: diminuire il costo unitario. Ma il costo unitario dipende da una variabile fondamentale: il tasso di riempimento. Una nave da 10.000 TEU riempita all’80% ha un costo unitario inferiore a una di 6.000 TEU con lo stesso tasso di riempimento. Ma se il load factor si riduce al 60% a causa della crisi della domanda? E’ un bagno di sangue. L’economia di scala del gigantismo navale non si regge su valori assoluti ma relativi. Se poi i noli crollano e la domanda pure a causa la recessione mondiale, i valori delle navi precipitano, la situazione patrimoniale diventa critica.
Ma non c’è solo questo male per così dire oscuro a preoccupare…
A questo va aggiunto il riflesso sui porti marittimi: negli ultimi dieci anni almeno, i porti europei si sono lasciati trascinare da visioni del futuro dominate dal gigantismo navale. Accogliere navi sempre più grandi con banchine sempre più lunghe e fondali sempre più profondi è diventato il tema dominante, tema che forse ha fatto perdere di vista altre priorità ed ha reso i decisori (a qualsiasi livello) prigionieri di una fiducia in un’inarrestabile crescita, dei traffici e della dimensione delle navi. Ma a partire dall’11 settembre 2001, il mondo ha cominciato a prendere tutt’altra direzione, di eventi imprevisti – prima di tutto quelli climatici – di crisi regionali o planetarie. I decisori, consegnandosi alla prospettiva di un destino immutabile che procede in maniera lineare verso il gigantismo, hanno trasformato i porti non solo in enormi cantieri sempre aperti ma anche in sistemi sempre più rigidi e meno flessibili.
In Italia, nel Mediterraneo, la rincorsa del gigantismo navale sta portando a situazioni pericolose.
Progetti faraonici di dubbia realizzabilità tengono banco per mesi e mesi, pretendono di ricevere risorse straordinarie dallo stato, azzerando ogni possibilità di programmazione da parte di governi, che già di per sé dimostrano avere idee poco chiare. A Venezia, Ravenna, Ancona, Napoli, Civitavecchia, Livorno, Genova, si scava per approfondire i fondali, con ambizioni talvolta realistiche talaltra fantasiose. Di questi porti solo Genova può pensare di veder arrivare a scadenze regolari navi sopra i 12.000 TEU, perché la nave cerca la merce non cerca i fondali, perché l’attracco di una ULCC (Ultra Large Crude Carrier portata oltre le 320.000 tonnellate) non è economico al di sotto di una certa soglia di volumi da sbarcare e imbarcare e nessuno di questi porti, tranne Genova, ha un Hinterland capace di alimentare volumi di questa dimensione. Protèsi con lo sguardo verso l’orizzonte marino, nella speranza di veder spuntare una megacarrier, i decisori hanno dimenticato di guardare alle spalle, verso l’entroterra, vera linfa vitale di un porto, tanto più ampia come catching area quanto più efficienti sono i servizi ferroviari di quel porto. In 10 anni i porti italiani hanno perduto il 50% del traffico ferroviario. Nemmeno Genova riuscirà a smaltire il traffico delle ULCC se non riesce a potenziare i suoi servizi ferroviari. Oggi dal VTE, il terminal di Voltri, più di 24 treni al giorno non possono entrare o uscire. Non è detto poi che, giunti a destino, possano entrare ovunque, nemmeno nell’area di Milano. I terminal, quelli buoni, di una certa capacità, sono una risorsa scarsa. Solo La Spezia e Trieste hanno aumentato sensibilmente la loro quota di traffico su rotaia, La Spezia supera il 24% e Trieste a fine 2012 avrà realizzato più di 3.900 treni di unità intermodali. Venezia, la sua rivale in Alto Adriatico, zero.
Dunque è sbagliato potenziare i porti?
Non è sbagliato potenziare i porti, è sbagliato farlo sotto l’ipnosi del gigantismo navale, è sbagliato aumentare la capacità senza aver allungato i tentacoli sui mercati potenziali del retroterra e senza aver costruito alleanze nelle filiere logistiche, è sbagliato puntare solo su container e crociere, trascurando tutto il resto.
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