Palermo – C’è il patrimonio di una confisca — quella all’imprenditore Vincenzo Piazza, circa 500 immobili per un valore di oltre un miliardo di euro — che da solo potrebbe risolvere buona parte dell’emergenza abitativa di Palermo. «Ci sono palazzi, scantinati, magazzini, appartamenti e ville, facenti parte di compendi aziendali, che nessuno usa perché la legge non mi consente di cederli agli enti territoriali. Allora mi chiedo: che senso ha tenere queste ricchezze nel cassetto, in certi casi farle andare anche in malora, quando potrebbero contribuire a risollevare le sorti di un’economia depressa?». È netta la posizione del prefetto Giuseppe Caruso. Dentro o fuori, o si fa una nuova legge, o si cambia radicalmente quella attuale, «oppure — spiega il direttore dell’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati — avremo perso la più importante delle battaglie».
Che sarebbe?
«Quella di indebolire fino a distruggere il potere dei boss e di restituire ricchezza e fiducia alla gente onesta. Se ogni euro tolto alla mafia viene investito per bonificare le realtà territoriali, che per anni sono state violentate e depauperate, per il cittadino sarà più facile capire da che parte è giusto stare. Se, viceversa, lo Stato non sarà in grado di rispondere alle esigenze della collettività e di risarcirla, la gente sarà sempre tentata di prendere scorciatoie».
Spulciando dati e statistiche sembra che manchi sempre qualcosa per valorizzare queste risorse.
«È proprio così. Abbiamo un patrimonio enorme che gestiamo con difficoltà perché le risorse e gli strumenti sono inadeguati. Delle trenta persone previste in organico, solo una finora ha accettato perché nessuno trova vantaggioso lasciare il proprio posto (ad esempio nelle forze dell’ordine o nei ministeri) in quanto in Agenzia non sono previsti incentivi né economici né di carriera. L’ultima legge finanziaria ci dà la possibilità di ampliare l’organico con l’acquisizione di un centinaio di collaboratori provenienti dalle pubbliche amministrazioni in posizione di distacco o di comando. Ma al momento in cui vengono professionalizzati rientrano negli uffici di provenienza e questa precarietà non aiuta certamente la funzionalità dell’Agenzia».
Tra l’altro adesso i carichi di lavoro sono destinati ad aumentare in maniera esponenziale.
«Infatti, da quando la legge impone all’Agenzia l’amministrazione delle confische di primo grado, il nostro lavoro è decuplicato e con questi numeri rischiamo il collasso».
Ma c’e’ un modo per uscire da questa impasse?
«Bisogna cambiare la legge. Nei giorni scorsi c’è stata una mia audizione a Palazzo Chigi e ho presentato una bozza sia in Commissione che al Ministero. Non possiamo più andare avanti a colpi di emendamenti, serve una rivisitazione complessiva della legge istitutiva partendo proprio dall’organico. Devo avere la possibilità, trasformando ad esempio l’Agenzia in un ente di diritto economico, di avviare una contrattazione con professionalità specifiche, altrimenti nessuno troverà appetibile lavorare con noi. E poi anche le sedi: cinque sono poche, ne servirebbero almeno sette (già previste, peraltro, dalla legge) e, di queste, almeno due in Sicilia, dove c’è il 43 per cento dei beni confiscati in tutta Italia.
Cos’altro prevede la bozza?
«Un aspetto fondamentale riguarda la possibilità di destinare i patrimoni delle aziende anche agli enti territoriali, ma c’è pure la necessità di creare un fondo di rotazione per affrontare problemi di manutenzione o altre criticità che, una volta risolti, potrebbero rendere più appetibile l’acquisizione del bene. Per la destinazione delle aziende, la legge per ora mi consente solo tre alternative: vendita, affitto o liquidazione, ma non l’assegnazione ad enti territoriali. Finora, laddove è stato possibile, per superare questo problema abbiamo estrapolato gli immobili che, prima dell’entrata in vigore della legge, venivano già utilizzati per fini istituzionali. Grazie a questo sistema, negli ultimi mesi abbiamo assegnato alcuni edifici dell’Immobiliare Strasburgo alla Provincia e al Comune di Palermo, che insieme risparmieranno quasi 4 milioni di euro l’anno di affitti».
Quando si parla di aziende e di attivita’ produttive bisogna pero’ fare i conti con i posti di lavoro.
«Per noi l’obiettivo è quello di mantenere immutati i livelli occupazionali, perché non si deve assolutamente dire che con la mafia si lavorava e con lo Stato no, anche se i boss non si sono mai posti i problemi di una gestione corretta e legale dell’impresa. Purtroppo la maggior parte delle aziende arriva in confisca definitiva già decotta e questo non può che determinare la liquidazione».
E’ possibile affrontare l’emergenza abitativa usando beni sottratti a Cosa nostra?
«Certo, ma a patto però che se ne faccia un uso corretto. Una soluzione potrebbe essere ad esempio l’equo canone agevolato. In questo modo, da un lato si risolverebbe il problema della mancanza di alloggi, dall’altro si incasserebbero soldi che possono essere utilizzati per la gestione di questi beni e per altri usi sociali».
Quando si parla di vendita la domanda che ci si pone e’ sempre la stessa: e se dovesse acquistare un mafioso?
«Intanto, la vendita che ho proposto deve avvenire solo in via residuale e solo se nessun ente statale o territoriale lo richiede. Esistono poi dei paletti che evitano la possibilità che vengano comprati da mafiosi o prestanome. Senza dimenticare che magistratura e forze dell’ordine sono talmente bene allenati che nella peggiore delle ipotesi, li risequestriamo danneggiando per la seconda volta le casse mafiose. Va ricordato inoltre che i ricavati delle vendite andrebbero nelle casse dei ministeri dell’Interno e della Giustizia, quindi alle forze dell’ordine e alla magistratura».
Un altro problema riguarda le auto confiscate, che spesso vanno in malora per il mancato utilizzo.
«In questo caso abbiamo individuato una via d’uscita pratica e utile al tempo stesso. Oltre a quelle destinate alle forze dell’ordine, abbiamo deciso infatti di donarle anche agli enti territoriali. O in alternativa, se non richieste, vengono vendute alle aste pubbliche».
Torniamo in Sicilia e in particolare a Palermo, dove lei è stato sia questore che prefetto e dove spesso ci si stanca solo a elencare i problemi figuriamo i a risolverli. Mafia, disoccupazione, traffico … Da dove comincerebbe?
«Dalle piccole cose. Dai lavavetri, dai posteggiatori abusivi, ma anche dai cavalli degli ’gnuri che sporcano, dalle buche stradali e dalla progressiva riduzione dei molti, tanti privilegi delle varie classi dirigenti».
Un momento, ci faccia capire: ritiene buche, lavavetri e abusivi in genere più importanti della lotta alla mafia?
«Quando il prefetto Dalla Chiesa arrivò a Palermo molti ebbero da ridire sul fatto che lui prese a cuore il problema degli abusivi del pane. Magari nella lista delle priorità questa era all’ultimo posto, ma è proprio l’illegalità comune, quella che parte dal basso, a legittimare la mafia o altri fenomeni illegali».
Ma se dovesse sceglierne uno, quale problema metterebbe al primo posto?
«Senza dubbio il lavoro. Se a una persona togli il lavoro e lo stipendio, a quella persona hai tolto pure la dignità, l’autostima e quindi la libertà. E senza questi valori, anche un cittadino perbene davanti alla possibilità di facili guadagni può essere portato a delinquere. Questa è una terra splendida in cui si sono fatte scelte sbagliate. Ma non tutto è perduto. Abbiamo già in parte rubato il futuro ai giovani… cerchiamo di riparare».
Di Vincenzo Marannano per il Giornale di Sicilia
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