Un castello di accuse, dalla violenza sessuale alla detenzione di materiale pedopornografico, che hanno costretto un uomo agli arresti domiciliari per oltre due anni e mezzo. Tutto però è crollato come neve al sole. La seconda sezione del Tribunale di Palermo, presieduta da Roberto Murgia, a latere Stefania Gallì ed Elisabbetta Villa, ha assolto Ignazio Majolino di 50 anni. Il pubblico ministero aveva chiesto sette anni di reclusione.
Determinanti sono risultate le indagini difensive del difensore dell’imputato, avvocato Gioacchino Genchi, volte a stabilire la presenza dell’imputato presso la sua abitazione negli orari nei quali, nei pressi dell’Istituto odontotecnico di Via Prezzolini, a Palermo, un uomo avrebbe aggredito e violentato due minorenni. Le indagini difensive dell’avvocato Genchi sono state concentrate soprattutto su una complessa analisi del traffico telematico del cellulare dell’imputato e della connessione, con l’indirizzo IP della WiFi dell’abitazione al “Mobil Banking” dell’Unicredit, presso cui l’imputato intratteneva il proprio conto corrente, del quale il difensore ha acquisito la log delle connessioni. Decisiva si è pure rilevata l’analisi dei tabulati del traffico telematico, del traffico telefonico e dell’hard disk dell’imputato, eseguita dal consulente tecnico della difesa, dottor Danilo Spallini.
La mattina dell’11 aprile 2019 due ragazzine, dopo essersi recate a scuola, avevano riferito a una bidella e al vicepreside che un uomo le avrebbe prese per il collo e gettate a terra, per costringerle a subire il palpeggiamento del seno e del sedere. Subito dopo i carabinieri del Nucleo radiomobile di corso Calatafimi arrestavano Majolino sostenendo che “rispecchiava perfettamente i dati” forniti dalle presunte vittime. In quel momento era in possesso di due scontrini cartacei che avrebbero potuto smentire sin dall’inizio la sua estraneità ai fatti: il primo riguardava la ricevuta di un prelievo bancomat, riportante pure il codice della transazione e l’orario, oltre agli estremi del bancomat Unicredit del quale era in possesso; il secondo corrispondeva allo scontrino fiscale rilasciato da un supermercato per l’acquisto di una confezione di lamette da barba Gillette, che l’imputato aveva con se, unitamente al sacchetto del supermercato quando è stato arrestato dai Carabinieri.
I due scontrini sono stati ritenuti come “documenti anonimi” dal pm che ha chiesto al G.I.P. la convalida dell’arresto.
Lo stesso pm Claudia Ferrari, letti gli atti, “piuttosto che riscontrare la versione dei fatti di Majolino”, delegando le indagini a personale di polizia giudiziaria specializzato, si era limitata a chiedere la convalida dell’arresto, senza fare subito acquisire i filmati delle telecamere che l’indagato aveva sin da subito indicato agli inquirenti. Nonostante sia stato lo stesso comandante del Nucleo radiomobile a sottolineare già nel verbale di arresto, in grassetto ed evidenziato con una doppia cornice in neretto, che il suo reparto “non era organicamente strutturato per il compimento di attività investigative successive a quelle poste in essere nella flagranza”, la procura non ha delegato le indagini sulle violenze sessuali ad un reparto specializzato di polizia giudiziaria.
Da qui, come sostenuto dall’avvocato Genchi, sarebbero avvenute una serie di falle investigative: la mancata considerazione degli elementi di prova documentale forniti nell’immediatezza dell’arresto; la mancata e tempestiva acquisizione delle telecamere; la mancata acquisizione dei dati del tracciamento delle localizzazioni GPS dell’antifurto con localizzatore satellitare presente nell’autovettura; la mancata rilevazione e la cancellazione della cronologia delle posizioni, delle connessioni web, dell’utilizzo delle applicazioni e dei messaggi WhatsApp registrati nello smartphone, che il consulente del pm ha cancellato e non ha depositato al pubblico ministero, come non ha depositato, dopo averla eseguita, la copia forense del cellulare dell’imputato.
Il difensore del Majolino ha però recuperato la chat dell’imputato con la madre dal cellulare di questi, che ne ha confermato il contenuto al Tribunale, che ha anche acquisito la consulenza della difesa.
“Altre gravi lacune investigative” sono state segnalate dall’avvocato Genchi nell’esame “assai approssimativo” dei supporti informatici sequestrati al Majolino all’atto dell’arresto e affidati dl pm al consulente tecnico Pietro Indorato, il quale era giunto alla conclusione che all’interno dell’hard disk ci fosse “materiale pedopornografico consistente in video ritraenti persone minori coinvolte in atti sessuali”.
Anche questa tesi è stata smentita dalle indagini difensive dell’avvocato Genchi, dimostrando in modo documentale che quei file non appartenevano all’imputato, che non lio aveva mai aperti, posto che il consulente “non ha fornito per nessuno dei supporti informativi in sequestro l’indicazione, quanto meno sommaria, dei ranges temporali in cui risultavano create le singole directories in ciascuno dei supporti di memoria sottoposti a sequestro, onde risalire, quanto meno, al periodo di verosimile utilizzo”, tanto da rendere “la sua relazione irricevibile già sin dal momento stesso in cui è stata depositata”, poiché “costituisce ormai un principio consolidato, tanto in dottrina che in giurisprudenza, come la condotta di detenzione di materiale pedopornografico non si configuri semplicemente con il mero rinvenimento, essendo richiesto, quanto meno a titolo di dolo generico, la consapevolezza e la volontà di procurarsi o detenere il materiale pedopornografico proveniente dallo sfruttamento dei minori, in qualunque forma questo sia stato realizzato (foto, video, audio, chat, ecc.)”. Infatti il consulente della difesa ha dimostrato che i files contestati erano all’interno di una cartella di film, frutto di un procedimento di copia e incolla da parte di un amico di Majolino.
Tutti elementi che, alla fine, hanno portato il collegio giudicante a credere alla versione dell’imputato, che è stato dunque assolto per non avere commesso il fatto dal reato di violenza sessuale nei confronti delle due minorenni e perché il fatto non costituisce reato dall’accusa di detenzione di materiale pedopornografico.
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