Come abbiamo raccontato stamattina, a Bagheria, la città che ha ospitato la latitanza di Bernardo Provenzano come di Matteo Messina Denaro, è crollato un muro.
Un primo commerciante ha parlato, lo hanno seguito altri trentacinque tra negozianti e imprenditori. A raccontare di estorsioni andate avanti per decenni, cominciate con la lira (tre milioni al mese) e traghettate nell’epoca dell’euro. Un imprenditore pagava dall’inizio degli anni Novanta: ha detto di avere dovuto chiudere l’attività e vendere la casa. A finire in carcere sono stati 22 presunti estortori, con un’operazione portata avanti dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia.
Le indagini hanno evidenziato la soffocante pressione estorsiva esercitata dai boss che, dal 2003 al 2013, si sono succeduti ai vertici del clan. Cinquanta le estorsioni scoperte.
Grazie alla dettagliata ricostruzione fornita da 36 imprenditori che hanno trovato il coraggio, dopo decenni di silenzio, di ribellarsi al giogo del “pizzo” è stato possibile tracciare la mappa del racket.
Gli estortori colpivano a tappeto. Dall’edilizia a ogni attività economica locale che portasse guadagni: negozi di mobili e di abbigliamento, attività all’ingrosso di frutta e di pesce, bar, sale giochi, centri scommesse.
Le vittime finalmente si ribellano – “Trentasei imprenditori hanno ammesso di avere pagato il pizzo. Alcuni di loro sono stati sottoposti a vessazioni per anni. E’ la breccia che ha aperto la strada per assestare un nuovo colpo a Cosa nostra, segno che i tempi sono cambiati e che imprenditori e commercianti finalmente si ribellano”. Così il colonnello Salvatore Altavilla, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Palermo, ha commentato l’ultimo blitz dell’Arma contro la cosca di Bagheria reso possibile dalle denunce delle vittime del racket. Dei 22 boss ed estorsori raggiunti dal provvedimento cautelare solo cinque erano liberi.
Tra le “ordinarie” storie di violenza, scoperte dai carabinieri, anche quella che vede protagonista un funzionario comunale dell’Ufficio tecnico di Bagheria che avrebbe avuto contrasti con la cosca legati alla lottizzazione di alcune aree. Cosa nostra, nel 2004, gli ha incendiato la casa e sequestrato un collaboratore domestico.