Il nuovo numero de L’Espresso (che da questa settimana diventa supplemento di Repubblica) si occupa molto della Sicilia. “Tagli ai servizi, ai dipendenti alle pensioni. Oggi si tenta di rimediare a decenni di spese senza freni. Eppure Palermo dà allo Stato più di quanto riceve”, scrive in un articolo Giuseppe Oddo, che definisce quello della Sicilia “un bilancio di lacrime e sangue”. L’Espresso sostiene che il presidente Crocetta sia di fatto “commissariato” dall’assessore all’Economia, Alessandro Baccei “il toscano gradito a Palazzo Chigi”. Oddo ricorda le valutazioni della Corte dei Conti siciliana sul contributo che la Sicilia dà allo Stato per il risanamento della finanza pubblica, all’origine della crisi di liquidità: “Questo contributo – scrive Oddo – nel 2015 ha sfiorato 1.3 miliardi di euro ed è stato il secondo dopo quello della Lombardia che però ha un Pil notevolmente più grande”. “Sul fronte fiscale la Sicilia sconta problemi non risolti che ne deprimono le entrate – sostiene L’Espresso – , come l’Iva che dovrebbe essere assegnata per intero alla Sicilia, che invece ottiene a solo quella riscossa dalle imprese che hanno sede nell’Isola. Basta avere una sede legale fuori dall’Isola e le risorse destinate all’Isola svaniscono. In Sicilia si vendono i prodotti e l’imposta viene versata altrove”. “La Regione ci rimette circa 3 miliardi su 5” scrive Oddo. L’analisi continua con l’Irpef che spetterebbe alla Sicilia ma viene intascata dallo Stato. “Queste due violazioni statutarie, ovvero i minori incassi di Iva e Irpef valgono per la Sicilia circa 7 miliardi di imposte in meno”, riconosce l’assessore all’Economia Baccei. Oddo intervista anche Massimo Costa, docente di economia e leader degli indipendentisti. “L’Autonomia siciliana applicata in maniera distorta è un handicap più che un vantaggio, perché la Regione Siciliana può contare su un livello di entrate inferiore a quello cui avrebbe diritto ed è massacrata dal contributo alla finanza pubblica sproporzionato rispetto alle sue condizioni economiche”. Le conclusioni di Oddo: “Con una mano lo Stato concorre alla spesa sanitaria con 2,4 miliardi di euro l’anno, e con l’altra se ne riprende il triplo”.
Ecco l’articolo:
Il governo Crocetta per tentare di bloccare l’emorragia finanziaria del bilancio regionale stringe i cordoni della spesa, riduce i finanziamenti per i servizi ai siciliani, taglia i dipendenti. E il governatore sembra un fantasma davanti alle decisioni da prendere, tanto da apparire “commissariato” dai toscani sulla politica economica.
Nella scorsa legislatura, durante gli ultimi sussulti della giunta di Raffaele Lombardo, la Regione siciliana rischiò l’insolvenza per una crisi di liquidità. Rispetto ad allora i numeri sono cambiati. Il bilancio consuntivo del 2015 registra un avanzo di circa 150 milioni a fronte di entrate correnti per 11,3 miliardi e di spese sanitarie per 6,3 miliardi.
Rispetto al deficit di 2 miliardi dell’anno precedente, è un’inversione di tendenza. È il primo risultato di un percorso di risanamento avviato nel novembre 2014 con l’inserimento nella giunta Crocetta di un assessore all’Economia gradito a Palazzo Chigi: il fiorentino Alessandro Baccei. Da allora è cominciata una politica di aggressione alla spesa di cui già s’intravedono, a livello contabile, i primi effetti.
I risparmi, in parte attesi in parte da conseguire, riguardano diversi ambiti dell’amministrazione. Primo fra tutti, il personale diretto, che tra il 2015 e il 2020 sarà sfoltito con il prepensionamento di 4.500 unità: un cambio di passo per una Regione che occupa 15mila dipendenti ed ha in carico 17mila pensionati, 24mila forestali, 20mila precari, 6mila lavoratori socialmente utili, 8mila formatori, senza contare gli addetti alle partecipate (altri 6mila), agli enti controllati (altri 5mila) e via elencando. Nello stesso tempo, il sistema di calcolo pensionistico degli impiegati regionali è stato allineato a quello statale. Dal primo gennaio 2017, i pensionati di Palazzo dei Normanni non andranno più in quiescenza con l’ultimo stipendio maggiorato del 20%, ma con il 90% dell’ultima busta paga, che scenderà all’85% nel 2020. La Regione, che oggi spende circa 700 milioni in pensioni (una cifra che supera il valore degli stipendi), ne trarrà un beneficio consistente.
Nel 2015 sono stati inoltre cancellati dal bilancio residui attivi (crediti accertati, ma non riscossi) per 5,3 miliardi e ne sono stati imputati per altri 5,5 miliardi ai bilanci no al 2017. I residui attivi hanno permesso alla Regione siciliana (e ad altri enti quali Lazio e Campania) di gonfiare regolarmente le entrate e di registrare a bilancio crediti inesigibili a copertura di incrementi di spesa altrimenti non giusticabili. L’attitudine a gonfiare le spese, per foraggiare settori clientelari come la formazione professionale e i forestali, ha raggiunto il massimo nella passata legislatura con l’iscrizione alle entrate previsionali di 930 milioni che la Regione avrebbe dovuto ricavare dalla dismissione di immobili in base a valutazioni irrealistiche. La vendita non è mai avvenuta, ma l’avere riportato la somma nel bilancio di previsione ha autorizzato un’uscita equivalente, creando
nuovo deficit.
L’altro strumento per aumentare la spesa e ripianare i disavanzi è stato l’indebitamento. Il ricorso al debito è cominciato nella seconda metà degli anni ’90 ed è proseguito senza interruzioni negli anni Duemila. Mentre i governi nazionali si allineavano ai parametri europei, attuando politiche di rientro del debito, la Regione ha accresciuto l’esposizione e ha accumulato interessi passivi. L’illiquidità di cassa è divenuto un fenomeno ricorrente, finché non è esplosa in modo virulento nell’estate 2012, rischiando di far collassare la Sicilia.
Dice Baccei: «Oggi abbiamo smesso di autorizzare spese prive di entrate, che creavano indebitamento e mandavano in sofferenza la cassa. Lo scorso anno abbiamo utilizzato 700 milioni dei fondi sviluppo e coesione per coprire spesa corrente, ma dal 2016 questi soldi sono stati restituiti agli investimenti per fare strade, contrastare il dissesto idrogeologico, sostenere il turismo e i beni culturali».
Nonostante questi innegabili passi avanti, la Corte dei Conti segnalava tuttavia, ancora nel 2015, come gli andamenti delle giacenze di cassa rendessero problematica in prospettiva la situazione di liquidità della Regione. E indicava due cause: la flessione delle entrate fiscali in seguito alla recessione e la loro erosione per il contributo dovuto dalla Regione allo Stato per concorrere al risanamento dei conti pubblici nazionali.
Questo contributo nel 2015 ha sorato gli 1,3 miliardi ed è stato il secondo dopo quello della Lombardia, che ha però un pil notevolmente più grande di quello della Sicilia. Regioni altrettanto grandi come Lazio, Campania e Piemonte o più ricche come Emilia Romagna, Toscana e Veneto versano cifre decisamente inferiori.
Sul fronte scale la Sicilia sconta inoltre problemi non risolti che ne deprimono le entrate e che svuotano di contenuto lo statuto autonomistico. Il primo è legato all’imposta sul valore aggiunto: il fisco riconosce alla Regione solo l’Iva riscossa dalle imprese che hanno sede legale in Sicilia, mentre le imprese che, pur vendendo i loro prodotti in Sicilia, hanno sede nel continente versano l’imposta allo Stato. La Regione ci rimette con questo sistema circa 3 miliardi su 5.
Il secondo problema è legato al sostituto d’imposta: il server che elabora le buste paga dei dipendenti statali e dei pensionati Inps residenti in Sicilia è stato spostato a Latina. Una quota rilevante dell’Irpef maturata in Sicilia, che spetterebbe per statuto alla Regione, è pertanto trattenuta dallo Stato. Queste due violazioni statutarie, ovvero i minori incassi da Iva e Irpef, «valgono per la Sicilia circa 7 miliardi di imposte in meno », spiega Baccei. Con quale risultato è presto detto: le entrate tributarie pro-capite dell’Isola sono nell’ordine di 2 mila euro, pari a quelle di una Regione a statuto ordinario, contro i 4 mila della Sardegna, i 6 mila del Friuli, gli 8mila delle province autonome di Trento e Bolzano e i 9mila della Valle d’Aosta.
«La Sicilia spende peggio di altre Regioni, non di più», prosegue Baccei. Piuttosto che investire in infrastrutture, servizi, ciclo dei rifiuti, cultura, conservazione delle opere d’arte sperpera il denaro in attività improduttive e mantiene un esercito di dipendenti. Ma quello della spesa è un enorme problema di qualità, non di quantità. Spiega Massimo Costa, professore di Economia aziendale dell’università di Palermo e leader del movimento Siciliani liberi: «L’autonomia speciale applicata in modo distorto è un handicap più che un vantaggio, perché la Regione siciliana può contare su un livello di entrate inferiore a quello cui avrebbe diritto ed è massacrata da un contributo alla finanza pubblica sproporzionato rispetto alle sue condizioni economico- sociali. Per di più espleta funzioni che nelle Regioni ordinarie sono a carico dello Stato».
Con una mano lo Stato concorre alla spesa sanitaria dei siciliani, trasferendo alla Regione 2,4 miliardi l’anno, e con l’altra se ne riprende il triplo trattenendo per sé imposte che spetterebbero alla Sicilia. Per rimediare, il governo ha avviato l’iter per la revisione delle norme attuative dello statuto, ma con un’operazione a somma zero: il trasferimento alla Regione di imposte trattenute dallo Stato per un valore di 1,4 miliardi, in cambio di tagli di importo analogo nel bilancio regionale.
La verità è che le aperture del governo Renzi in materia di enti regionali e locali sembrano contraddette dalla modica del comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione dove si afferma che «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale ». Costa individua in questa formulazione una clausola di supremazia che consentirebbe alla Stato (se gli italiani votassero Sì al referendum costituzionale di ottobre) di riprendersi competenze trasferite alle Regioni con deliberazione della Camera a maggioranza semplice. Una clausola in linea con la visione centralistica dello Stato manifestata da Renzi, che depotenzia in modo denitivo le Regioni autonome a statuto speciale come quella siciliana, trasformandole in gusci vuoti.
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