La “terribile storia” dei frati di Mazzarino, una vicenda di cronaca giudiziaria che 60 anni fa appassionò l’opinione pubblica, finisce per sempre in archivio. I frati cappuccini non ci sono più. Al loro posto solo 4 monache . ma chi erano i terribili frati di Mazzarino? Pubblichiamo la ricostruzione della storia scritta da Gianluca Fulvetti in un saggio pubblicato all’interno del volume “L’immaginario devoto tra mafie e antimafia”
Il 12 marzo 1962 si apre nell’aula della Prima Sezione della Corte di Assise del tribunale di Messina il processo a carico di padre Agrippino (al secolo Pietro Jaluna, di 39 anni), padre Venanzio (Liborio Marotta, 46), padre Carmelo (Luigi Galizia, 83) e padre Vittorio (Ugo Bonvissuto, 41), quattro frati cappuccini del convento di Mazzarino (Caltanissetta), accusati di aver compiuto tra 1956 e 1959 delle estorsioni ai danni di alcuni confratelli, incluso il padre Provinciale del loro Ordine, e di un paio di professionisti. Le carte dell’istruttoria delineano senza grossi dubbi le responsabilità dei monaci.
Secondo una prassi consolidata, le vittime ricevevano alcune lettere estorsive, anonime, dattiloscritte, che indicavano di pagare rivolgendosi ai religiosi. A turno, questi (i primi tre, in realtà)2 si recavano nelle loro abitazioni, a loro dire obbligati a farlo da alcuni criminali, per invitarle appunto a pagare, raccomandandosi di non denunziare i fatti alle autorità. Di fronte a incertezze o resistenze, mediavano (ma non troppo) sull’ammontare delle somme, in alcuni casi si lasciavano andare a velate minacce, mantenendo un assoluto riserbo su chi fossero i malfattori che li avrebbero costretti a quel ruolo.
Ernesto Colajanni è un farmacista, ma anche un terziario francescano che conosce molto bene i monaci, si attende di trovare conforto e aiuto. In realtà l’estorsione ai suoi danni va avanti dal 1957 sino al 1959: ignoti gli incendiano la porta della farmacia; di fronte alle sue resistenze padre Venanzio e padre Agrippino gli consigliano di non far più uscire di casa da solo suo figlio. Padre Sebastiano, il Provinciale, viene a sapere delle estorsioni subite da padre Costantino, anche lui del convento di Mazzarino; nel corso del 1958 incontra più volte padre Agrippino, vuole capire meglio il suo ruolo di “mediatore”, lo richiama con forza per il suo comportamento, ma il monaco è irremovibile: si deve pagare, altrimenti gli “ignoti criminali” potrebbero far saltare in aria il suo convento, a Gela. Angelo Cannada appartiene a una importante famiglia del paese, è molto religioso; padre Carmelo si reca spesso a celebrare messa nella sua cappella di famiglia. Nonostante gli inviti dei monaci, è il più tenace, non denunzia le estorsioni ma nemmeno cede. Il 25 maggio 1958, mentre sta trascorrendo la domenica pomeriggio in campagna, assieme alla moglie e al figlioletto, viene aggredito da due uomini incappucciati, che gli intimano ancora una volta di pagare, prima di sparargli, probabilmente per spaventarlo: il colpo gli trancia però l’arteria femorale, e Cannada muore poche ore dopo in ospedale.
Nei mesi seguenti alla vedova giungono altre missive anonime, e di nuovo padre Carmelo si reca nella sua abitazione, l’ultima volta alla vigilia di Natale, suggerendole anche di vendere alcune proprietà per fare alla svelta a racimolare il denaro necessario, e “avvisandola” di non segnare il numero delle banconote.3 Il monaco è forse preoccupato, l’omicidio ha messo in fibrillazione le forze di polizia; nel maggio 1959 viene gambizzato anche un vigile urbano che sta cercando di raccogliere informazioni sui criminali del circondario.4 Il quadro indiziario si compone, anche a carico dei religiosi, che sono arrestati nel febbraio 1960 e rinviati a giudizio nel gennaio 1961 per le estorsioni e per il reato di associazione per delinquere. Assieme a loro altre tre persone, Giuseppe Salemi (40 anni), Girolamo Azzolina (28) e Filippo Nicoletti (21), contadini e campieri: tra i loro capi di imputazione, anche altri reati – porto d’armi, furti, sequestri di persona, abigeati, ecc. – commessi nelle campagne di Mazzarino, Riesi, Barrafranca. Leggendo le carte, l’impressione è che in realtà non ci siano molti contatti tra questi imputati e le loro attività criminali da un lato, e i frati estorsori dall’altro. Che non fanno tutto da soli, ma trovano l’aiuto del mezzadro e guardiano del convento, Carmelo Lo Bartolo (di 45 anni). Uomo dai metodi spicci, campiere e gabellotto di altri proprietari della zona, con precedenti penali. Probabilmente è lui l’omicida di Cannada. Viene arrestato mentre è in fuga, in Liguria. In carcere, tra il 19 e il 20 giugno 1959, comincia ad ammettere qualche cosa, parla anche dei frati. Il 2 luglio muore però nel carcere di Caltanissetta, ufficialmente suicida – si impicca in cella – anche se sull’episodio si addensano molti dubbi.