Last updated on 20 aprile 2021
- Dice Luciano Armeli: l’anonima e piccolissima comunità galatese deve compiere uno sforzo a cui forse non è stata mai chiamata: rilanciare nell’ unità (e sottolineo unità) i gioielli di famiglia, che sono la cultura, la natura, la produzione di eccellenze culinarie, l’enogastronomia, con una pianificazione chirurgica e sfruttando al massimo la potenzialità delle connessioni del villaggio globale
- Percorsi artistico-culturali, quali ad esempio quello gaginiano, quello del maestro organaro vissuto al tempo del Regno delle Due Sicilie, Annibale Lo Bianco; del poeta Nino Ferraù, l’enogastronomia andrebbero coordinati da stazioni e risorse umane in maniera collegiale, superando le iniziative individualistiche ma facendo network. Solo così si può agganciare una buona fetta di turismo da cui tutti trarrebbero beneficio.
- Essere eccellenza in un contesto di miseria non giova a nessuno. Deve, a questo punto, funzionare esclusivamente un lavoro di squadra. I tempi di questo inadempimento erano già stati superati prima della pandemia. Forse sarebbe la buona occasione per cominciare a ragionare in un’ottica nuova in cui anche gli altri competitors nazionali sono al nastro di partenza. Avere il mondo dentro casa e fuori ci spostiamo con gli asini non serve.
L’ultimo libro è frutto di un’articolata inchiesta sulle agromafie nell’area dei Nebrodi: si intitola I vicerè delle agromafie. Storia di sbirri, bovini, malarazza, antimafia e mascariamenti. Libro pubblicato a luglio di quest’anno: una storia di malavita siciliana, colletti bianchi e agromafie, oltre che dei poliziotti che hanno bonificato la riserva naturale del Parco dei Nebrodi, e per questo sono stati soprannominati la “squadra dei vegetariani”.
Lui è Luciano Armeli Iapichino, definito uno “scrittore scomodo” per il lavoro svolto in tutti questi anni per le sue importanti inchieste su mafia e criminalità nei Nebrodi ma non solo. Nel 2019 ha vinto il premio “Scrittore scomodo” della Fondazione Antonino Caponnetto.
Luciano Armeli vive e scrive a Galati Mamertino, dove ha deciso di rimanere per amore del suo paese natale. Oltre a fare ricerca ed inchieste, è anche docente presso il liceo “Lucio Piccolo” di Capo d’Orlando.
Tra le opere da lui pubblicate, “Le vene violate. Dialogo con l’urologo siciliano ucciso non solo dalla mafia”, uno studio del profilo psicologico di Attilio Manca, vittima di mafia. Ne è esempio “L’uomo di Al Capone”, in cui racconta la storia di Tony Lombardo, nato a Galati Mamertino ed emigrato in America, dove entrò a far parte della malavita di Chicago.
Nel corso degli ultimi mesi, insieme al resto dei suoi concittadini galatesi, ha vissuto l’esperienza della zona rossa a Galati Mamertino, così come la veloce ripresa fino a raggiungere zero positivi.
Com’è stata vissuta l’esperienza della zona rossa da Galati e la sua comunità?
La zona rossa come caso estremo della gestione pandemica, vagheggiato sino a pochi giorni prima della sua attuazione in confini e orizzonti (anche psicologici) lontani dai nostri, è stata vissuta con tutte le limitazioni e le ferite interiori che una chiusura di quella portata comporta.
L’essere umano tende per natura alla socializzazione, all’interazione, alla necessità della mobilità, ad una dimensione prossemica. Per cui la chiusura, la restrizione quasi totale, la limitazione della libertà, associate alle difficoltà materiali e all’approvvigionamento di beni, in tempo di post villaggio globale, è stato vissuto come una mortificazione (anche se necessaria) delle prerogative dell’essere umano in quanto essere relazionale.
Solitamente la comunità di Galati è così unita come ha dimostrato nel corso degli ultimi mesi?
Si tratta di una comunità laboriosa capace di comprendere quando il “nemico” va affrontato con un’azione solidale e collegiale. Lo insegna la mitologia e, in molti casi, lo ha dimostrato la storia dei popoli. Dalla guerra di Troia all’occupazione nazi-fascista, dalle calamità naturali a quelle inflitte dall’uomo, le piccole come le grandi comunità hanno sempre affilato il senso di mutuo soccorso e la virtù della solidarietà.
Galati Mamertino ha risposto egregiamente alle sollecitazioni negativa di una zona rossa in tempi di pandemia.
Non sono mancati momenti di scoramento.
Qual è il futuro che si prospetta per Galati? Cosa sarà necessario avvenga per ripartire?
A mio avviso, dopo un uragano di questa portata quale propaggine di una tempesta perfetta globale, che ha azzerato le conquiste, le certezze e gli equilibri dell’homo prometheus, l’anonima e piccolissima comunità galatese deve compiere uno sforzo a cui forse non è stata mai chiamata: rilanciare nell’ unità (e sottolineo unità) i gioielli di famiglia, che sono la cultura, la natura, la produzione di eccellenze culinarie, l’enogastronomia, con una pianificazione chirurgica e sfruttando al massimo la potenzialità delle connessioni del villaggio globale. Percorsi artistico-culturali, quali ad esempio quello gaginiano, quello del maestro organaro vissuto al tempo del Regno delle Due Sicilie, Annibale Lo Bianco; del poeta Nino Ferraù, l’enogastronomia andrebbero coordinati da stazioni e risorse umane in maniera collegiale, superando le iniziative individualistiche ma facendo network. Solo così si può agganciare una buona fetta di turismo da cui tutti trarrebbero beneficio. Essere eccellenza in un contesto di miseria non giova a nessuno. Deve, a questo punto, funzionare esclusivamente un lavoro di squadra. I tempi di questo inadempimento erano già stati superati prima della pandemia. Forse sarebbe la buona occasione per cominciare a ragionare in un’ottica nuova in cui anche gli altri competitors nazionali sono al nastro di partenza. Avere il mondo dentro casa e fuori ci spostiamo con gli asini.
Non può più funzionare. Se il paese non si sveglia unitamente al territorio, il baratro sociale, come il nulla che serpeggia nelle strade, avrà il carattere della permanenza.
La ripartenza, stavolta, non ammette deroghe e perdita di tempo.
Come docente, come sta vivendo questa emergenza? E, soprattutto, come pensa che stia influenzando i giovani?
La categoria dei docenti si è alienata in quello che è un surrogato di scuola definito DDI.
Ovviamente le ripercussioni saranno notevoli per i giovani in termini di possibilità perdute (ad esempio viaggi di istruzione, socializzazione, convegni), senza tenere conto dell’importanza della qualità della didattica in presenza che non ha eguali. E da non sottovalutare i problemi di natura psico-fisica per il tempo trascorso incollati a un video. Siamo diventati video-terminalisti depressi che di giorno in giorno hanno snaturato ruolo e professione, inseguendo la logica demotivante ed estrema della prestazione. Siamo, infatti, prototipi umani divorati dalle prestazioni laddove l’istruzione e la formazione del cittadino impongono, pure, soggettività e contatto. Ovviamente c’è chi sta molto peggio e ha perso tutto.
I giovani, devo ammettere, hanno affrontato questa dura prova della Storia con grande senso di maturità e serietà. Sono consapevoli dell’immane tragedia che ha colpito il globo e hanno imparato una nuova condizione cui forse non erano abituati: il senso di precarietà all’improvviso che tutto stravolge. Come il crollo delle torri gemelle o uno tsunami che cambia radicalmente lo scenario del giorno prima. E questo ha fatto sì che in loro si sia consolidata una sorta di capacità di adattamento che forse non avevano vissuto ancora pienamente.
Che futuro vede per i ragazzi e cosa serve per costruirlo?
Un futuro sicuramente tutto da riscrivere.
Per costruire serve sempre la vecchia logica: acquisire competenze e, umilmente, adottare l’atteggiamento dei perfezionisti in qualunque cosa. E poi, una visione più alta e nobile delle umane cose: oltre ogni pregiudizio, oltre ogni campanilismo, oltre ogni miseria spirituale. Per nobili orizzonti servono nobili pionieri.
Pensa che gli eventi più recenti influenzeranno la sua ricerca e ciò di cui scrive?
Sì, è già successo! Una sorta di rivoluzione interiore che mi spinge ad allargare e approfondire orizzonti diversi da quelli in cui, con la scrittura, ho calpestato sino adesso. Sto ritornando alla casa del padre: la filosofia. Che forse ha iniziato a chiamarmi. Con insistenza.
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