È di pochi giorni fa la notizia della cena tra boss a Porticello, località a pochi chilometri da Palermo, per la spartizione del mercato del pesce. Le intercettazioni, infatti, hanno svelato le mosse dei clan dell’Isola che puntavano alle importazioni dal Marocco. Le ragioni che stanno alla base dell’interesse mafioso sono state spiegate in un’intervista dalla professoressa Daniela Mainenti, siciliana, docente di diritto processuale presso la Link Campus University di Roma.
Professoressa Mainenti, dalle recenti inchieste emerge una modalità di estorsione che, oltre al pizzo, impone la scelta delle forniture alterando il mercato e il consumo delle materie prime. Qual è il suo punto di vista da studiosa del fenomeno?
“Dice bene, stiamo parlando proprio di materie prime, il consumo del pesce e la tutela della sua qualità deve rappresentare un obiettivo primario per una comunità che vuole garantire una basilare alimentazione ai propri figli. Ricordo un articolo dell’Espresso del 2016, molto preoccupante, esso riproduceva il teorema: ‘Il Mediterraneo non ha più pesci limitiamo la pesca e continuiamo ad eliminare i pescatori’. Purtroppo, però, non si disse che le cause di riduzione del pescato erano nel cambiamento climatico, nel raddoppio del canale di Suez, con l’ingresso delle specie aliene nel nostro mare. Non si disse che il sistema delle TAC (totali ammissibili di catture) con cui si disciplina lo sforzo di pesca è adatto per la pesca atlantica e non per quella Mediterranea, dove la pesca artigianale lavora con molte specie e soprattutto segue il criterio della stagionalità della cattura. Non si disse che la pesca è in classifica il 7° settore più burocratizzato del mondo (per leggi, trattati internazionali, ecc.) e precede anche quello farmaceutico. Ma soprattutto non si disse che l’Europa deve affrontare il problema Transfrontaliero con i piani di gestione condivisi con Tunisia, Serbia, ecc., per non parlare delle condizioni del pesce proveniente dai paesi terzi extraeuropei”.
Queste le premesse, e le conseguenze?
“A fronte di ciò un aumento esponenziale del consumo di pesce nel nostro Paese ne ha fatto un alimento particolarmente richiesto quando si desidera mangiare bene, ma la verità è che il 70% del pesce consumato nel nostro Paese è importato. Con un giro d’affari in tutti i segmenti della filiera a vari zeri. Con pochissima o nessuna tutela del consumatore finale che, soprattutto quando si siede al ristorante, non ha alcun modo per controllare la provenienza del pesce o dei frutti di mare che sta mangiando. Deve fidarsi di una ipotetica rassicurazione sulla freschezza del prodotto ma nulla di più”.
Un ottimo affare per la mafia, no?
“La pesca marittima, l’acquacoltura e tutta la filiera (trasformazione, logistica, conservazione, distribuzione, confezionamento) rappresenta, sotto il profilo economico e sociale, un comparto produttivo di notevole importanza per numerose realtà territoriali del nostro Paese. Nel corso degli ultimi anni, a seguito del peggioramento delle condizioni complessive dell’ambiente marino, dell’incremento dello sforzo di pesca tale da provocare una concreta riduzione degli stock ittici e del costante aumento dei costi di esercizio non compensate da adeguati incrementi dei ricavi, si sono registrate significative riduzioni sia del numero di imprese sia delle giornate di pesca e, a fronte dell’aumento della domanda di consumo, uno spostamento nel campo della illegalità, del contrabbando del prodotto ittico, specie tonni, ricci, e specie protette come le oloturie, e della frode alimentare. Il consumatore non può difendersi neanche in pescheria dove sono spesso assenti etichette complete del prodotto. A Palermo basta fare un giro per rendersi conto che raramente dai dettaglianti troviamo informazioni adeguate”.
E il legislatore non è intervenuto?
“Al contrario: ha peggiorato il quadro, infatti la Legge 28 luglio 2016, n. 154 ‘Deleghe al Governo e ulteriori disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo e agroalimentare, nonché sanzioni in materia di pesca illegale’, recante le misure per ‘il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura’ , introducendo una articolata revisione delle misure sanzionatorie a carico delle imprese di pesca che, nel corso della propria attività, incorressero nella violazione di norme nazionali e comunitarie, ha comportato, data l’entità delle suddette sanzioni, stabilita per contrastare fenomeni particolarmente gravi come l’abusivismo, un impatto particolarmente negativo nei confronti di pescatori responsabili di infrazioni, non volute, di lieve entità contribuendo, con questa impostazione, a stimolare, direi perfino eccitare, oltre ogni logica, a vantaggio di operatori disonesti che operano intenzionalmente al di fuori delle norme, la pesca illegale provocando danni enormi all’ecosistema, e, molto di più alle imprese intenzionate a continuare la loro attività nel pieno rispetto delle regole”.
È in questo vulnus che si inserisce l’organizzazione mafiosa?
“Certo che sì. Data tale premessa, infatti, è stato assai ingenuo ritenere che il sistema ‘si tenesse’ solo in ragione di una politica sanzionatoria, che, peraltro, non solo ha subito, in un breve arco di tempo, cambiamenti anche significativi (per tutte, il ripensamento sull’obbligo dei rigetti e l’introduzione dell’obbligo di sbarco), ma la cui efficacia e sostanziale equità è anche messa apertamente, e formalmente, in discussione dalle stesse istituzioni Europee”.
Dove portano, quindi, le analisi degli studi che sta conducendo in materia di pesca illegale?
“Questa analisi deriva dall’attenzione crescente a livello globale sui fenomeni criminali internazionali aventi ad oggetto l’ambiente e le sue risorse. Queste ultime, spesso trasformate in risorse economiche e infelicemente regolamentate, sono divenute obiettivo di soggetti e soprattutto d’interessi, in alcuni casi criminali, che hanno finito col depauperare l’ambiente naturale. Il pesce catturato illegalmente risulta spesso dissimulato, aprendo la strada a frodi alimentari che mettono in pericolo la salute dei consumatori. La pesca illegale riesce ad arrivare nei mercati ittici ufficiali, italiani ed europei e ad essere smerciato insieme al pesce ‘regolare’. Ecco perché sarebbe opportuno introdurre una licenza ad hoc per le pescherie. Allo stesso modo consentire al cliente di un qualsiasi ristorante di conoscere la tracciabilità del pesce che sta mangiando. Quello che è emerso dalle recenti inchieste e il coinvolgimento di ristoranti di note località marine vicino Palermo, molto frequentati dalle famiglie, deve fare riflettere. Credo che questi ristoratori non possano essere considerati vittime, la loro reputazione è quella di chi si è inginocchiato ai prepotenti. E se a mangiare le cozze scadute fossero stati i nostri bambini?”