La mafia è un fenomeno umano con un inizio e una fine ma tra l’inizio e la fine trova il modo di cambiare pelle, di presentarsi con nuovi volti e nuovi strumenti. E così una nuova figura di criminale si aggira per le nostre città: il mafioso della porta accanto, colui che è riuscito a infiltrarsi in una azienda sana e si presenta con il volto dell’imprenditore efficiente e senza macchia, del buon borghese. Il tutto grazie a una rete compiacente di colletti bianchi, grazie a rapporti con la politica e a una capacità finanziaria e di gestione delle aziende a livello professionale. E’, in sintesi, l’esame della Direzione investigativa antimafia di cui è direttore il generale Nunzio Ferla. Un esame contenuto nell’ultima relazione inviata al Parlamento e relativa al secondo semestre del 2014. Perché la mafia siciliana continua a fare affari in tutti gli ambiti che le sono congeniali e, per quanto molti capi siano in carcere, non si è affatto fermata: ci sono le estorsioni ma c’è anche il narcotraffico. E poi ci sono i grandi affari nei settori della Pubblica amministrazione in cui gioca un ruolo fondamentale il nesso mafia-corruzione che è, si legge nella relazione «congenito e fortissimo».
Alla base di tutto restano i rapporti con i colletti bianchi e con gli imprenditori compiacenti. Rapporti che fanno capo a quella che gli investigatori della Dia definiscono l’ala politico-economica di Cosa nostra, protagonista del cambiamento nel solco della tradizione: la mafia può contare su connivenze e collusioni con rappresentanti infedeli delle istituzioni e punta a interferire nella gestione dei pubblici poteri «con pratiche di vero e proprio brokeraggio criminale, finalizzato anche all’illecito sostegno elettorale di candidati disponibili».
In questo contesto c’è ormai un fenomeno che si va consolidando e che riguarda l’inquinamento dell’economia legale «quanto di più subdolo, nocivo e destabilizzante le mafie riescano a fare, rendendo di difficile individuazione la demarcazione tra condotte lecite e illecite, con comprensibili implicazioni sul sistema Paese». Il che tradotto significa che spesso è difficile capire se un’impresa fa o meno capo alla mafia. Sta in questo passaggio la presa d’atto che in molti casi il mutamento criminale è avvenuto: «Da anni si parla di mafia imprenditoriale – si legge nella relazione – perché l’esperienza mostra come il mafioso non si limiti a immettere denaro sporco nell’azienda, accontentandosi di ottenere un controvalore esponenziale, ma abbia acquisito quel grado di professionalità che gli consente di rilevare e condurre abitualmente attività economiche fissandone le strategie gestionali. Le implicazioni e gli effetti sono notevoli dal momento che l’impresa mafiosa non è facilmente riconoscibile». E’ una nuova figura di mafioso quella che emerge da questa analisi della Dia: il mafioso della porta accanto, vicino di ombrellone, normalmente inserito nei contesti civili e imprenditoriali. La figura del mafioso borghese e raffinato: un imprenditore come tanti. Ma che come tanti non è: è semmai il rappresentante della mafia che ha cambiato pelle, pericolosissimo per il fatto che la «disponibilità e l’investimento di ingenti capitali illeciti consentono di acquisire fattori produttivi – mezzi di produzione, forza lavoro e materie prime – e, quindi, di orientarne l’impiego, alterando la concorrenza e distorcendo le regole del mercato, al punto ddi incidere perfino sulla qualità della produzione, sugli standard di sicurezza e sui modelli di consumo». Una immagine inquietante: sembra quasi che il mafioso della porta accanto possa addirittura incidere sulle nostre abitudini, sulla nostra vita.
Sono gli effetti del binomio riciclaggio-investimento che resta il filo conduttore delle strategie mafiose che «oltre a perpetuare se stesse, rispondono all’esigenza primaria di occultare l’illecita provenienza della liquidità ma anche l’ambizione di scalare la piramide sociale». Attività di riciclaggio possibile grazie ad aiuti e omissioni, come quelle sulle segnalazioni di attività sospette: ancora oggi i professionisti, secondo quanto risulta all’Uif (l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia) sono quelli che segnalano di meno. Altro aspetto preoccupante riguarda la constatazione, «sempre più ricorrente, di una spontanea adesione al paradigma mafioso da parte di soggetti che non hanno subito pressioni di alcun genere». In alcuni processi è emerso come imprenditori, non pregiudicati, si si siano fatti scrupolo di mettere la loro azienda “a disposizione” dei criminali pur non essendo affiliati. Si spiegano così, sostengono gli investigatori della Dia, «le fortunate parabole imprenditoriali di taluni individui le cui vicende sono risultate intrecciate con i destini di famiglie mafiose. In alcuni casi, poi, si è scoperta l’esistenza di comitati d’affari sorti col precipuo obiettivo di avocare ai componenti fette di mercato, opportunamente ripartiti attraverso il sistema dei subappalti nei settori dei servizi e delle costruzioni».