La condanna di Beppe Grillo per diffamazione ha fatto molto discutere ma, come spesso avviene, a sproposito.
Il comico genovese ha subito parlato di tentativo di indurlo al silenzio, di violazione della propria libertà di espressione, paragonandosi a Pertini e Mandela…
I militanti del Movimento hanno, con altrettanta prontezza, parlato ora di giustizia ad orologeria, ora di tentativi dei poteri forti di ridurre al silenzio chi osa criticarli, ora di attentato alla libertà, ora di complotto contro il proprio leader.
Come spesso avviene nel delirio che, spesso, sono i social network ed i vari siti di (falsa) contro-informazione che propinano bufale e autentiche sciocchezze facendole passare per verità che chissà chi terrebbe nascoste, in pochi si sono premurati di spiegare perché la condanna di Beppe Grillo è, come si dice, in punta di diritto, ineccepibile.
I fatti. Nel 2011 Beppe Grillo si scagliò contro un professore universitario di Modena, reo, a dire del comico genovese, di sostenere tesi favorevoli al nucleare. Di qui, Grillo prima definì il professore universitario “consulente delle multinazionali”, continuando poi dicendo che lo avrebbe preso a calci “nel culo” fino a “denunciarlo e sbatterlo in galera”.
Ora, se si lasciassero a freno le pulsioni da tifosi, bisognerebbe da questi fatti, e codice penale alla mano, verificare se la condanna subita da Beppe Grillo sia dovuta oppure no.
Ed a mio avviso lo è, ma vediamo perché.
Il diritto di critica, perché è di questo diritto che stimo discutendo, prevede (traendo forza dall’art. 51 del nostro codice penale) che una frase o uno scritto possano essere scriminati (cioè non riconducibili alla diffamazione) solo se i fatti di cui si discute (o si scrive) siano veri, rilevanti pubblicamente e continenti nell’esposizione.
Andiamo direttamente alla continenza espressiva, perché è questa la vera questione.
La giurisprudenza, ormai univocamente, prevede che la critica possa (ed anzi, in un certo senso, debba) essere aspra, dura, finanche violenta ma pone come (quasi) unico limite quello dell’insulto personale, perché, questo sì, del tutto inutile e lesivo della reputazione di una persona.
Dicono, dunque, i giudici: criticate anche duramente, confutate ogni tesi, anche radicalmente, ma evitate di scadere nell’insulto volgare.
Ebbene: è proprio l’insulto volgare che ha “condannato” Beppe Grillo. A nulla c’entrano, pertanto, i lamenti di chi sostiene che la condanna sia figlia di una volontà di zittire il “Capo”: la condanna è figlia del Diritto, così come applicato a qualunque cittadino in casi del genere.
Non è, dunque, in discussione il diritto, sacrosanto, di Beppe Grillo (come di chiunque altro) di osteggiare anche ferocemente una tesi, ma è in discussione la possibilità di farlo ricorrendo all’insulto: in definitiva, posso certamente dire che le tesi di un professore siano gravi, indifendibili, portatrici di ogni male nel mondo ma non posso dire che tale professore “andrebbe preso a calci in culo fino a spedirlo in galera”. Tutto qui.
Conosco bene l’obiezione che sempre, in questi casi, viene fatta: sono questioni da avvocati, questioni in “giuridichese”.
No, non è affatto così.
Ritenere l’insulto, e non la critica legittima, quale causa di diffamazione è l’unico modo per far sì che la nostra comunità non si imbarbarisca del tutto. E tanto ciò è vero in un momento in cui i social network, certi siti di becera contro-informazione e finanche il dibattito pubblico sembrano, ormai, orientati a ritenere l’insulto, il volume dei decibel e il “politicamente scorretto” come valori e non già come sintomi, ed anche gravi, di una deriva che nulla ha a che vedere con la libertà di espressione, che è presidio troppo nobile per essere volgarmente utilizzato come contenitore in cui riversare ogni cosa.
In poche parole, la libertà di espressione non è ne può mai essere libertà di offendere, diffamare o di insultare.
Per questo è del tutto fuori luogo ogni paragone con Pertini e Mandela: perché, tra l’altro, i veri leader, sempre, la rivoluzione l’hanno fatta con la mitezza e la loro autorevolezza. Non certo con i “calci in culo”.
Valerio Vartolo