Dopo la morte del boss mafioso Bernardo Provenzano sono ancora tante le reazioni e le riflessioni su Cosa nostra, e su quello che cambia nella lotta alla mafia. Scrive Salvatore Lupo sul Messaggero:
Ripercorriamo le cronache della cattura di Provenzano. Al pubblico apparve come un vecchio alquanto malmesso, sprovvisto di guardaspalle e di qualsiasi altro dei simboli del potere criminale, economico, politico che immaginereste necessariamente connessi alla figura di un capomafia. Venne sorpreso in un cosiddetto “covo” ubicato nelle campagne prossime a Corleone, e più precisamente in una stalla fornita di arredi primitivi e semplicissimi strumenti rustici, dove egli consumava non caviale e champagne ma, più modestamente, ricotta e cicoria. La stampa pose grande enfasi nel riportare questi elementi, e i soliti esperti sproloquiarono sull’etica anticonsumistica, ovvero antimoderna, che a loro dire sarebbe tipica dell’eterna mafia rurale. Invece, palesemente, la stalla non era per nulla il covo da dove Provenzano governava Cosa nostra, ma il posto nel quale in ultimo si era rifugiato (o dove era stato scaricato dai suoi?) quando la pressione degli inquirenti si era fatta insostenibile.
La mafia viene usualmente raffigurata secondo gli schemi di un’usurata mitologia tradizionalista, e in questa veste, da sempre, la si vende meglio: ciò che spiega il perché questi elementi di colore siano stati accentuati a dismisura, al limite della falsificazione. È vero invece che la Cosa nostra corleonese era tutt’altro che un fenomeno folcloristico tra il 1979 e il 1993, nella fase in cui insanguinava la Sicilia e minacciava con attentati terroristici – prima mirati, poi anche indiscriminati – la nostra Repubblica. Parliamo peraltro di una stagione storica terminata, speriamo definitivamente. I lettori più giovani avranno l’impressione di sentire evocare un fantasma. Infatti la mafia-Cosa nostra, dopo il 1993, si è resa d’un tratto silente, e tale è rimasta nei 23 anni seguenti: tanto da indurre studiosi, operatori e semplici cittadini a chiedersi se esista al giorno d’oggi, a Palermo e in Sicilia, una realtà politico-criminale definibile con quel nome, con una chiara relazione di continuità con il passato.
BINDI. “Errare è umano ma perseverare è diabolico: ci auguriamo sia servita la lezione dell’altra volta”, quando il programma Porta a Porta di Bruno Vespa, ospitò il figlio di Riina per una intervista e fu al centro di forti polemiche. Così la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, nel corso della seduta odierna della Commissione, rispondendo al senatore del Pd Giuseppe Lumia che si è augurato che la figura del capo mafia Provenzano, i, non venga “santificata, trasformata in un mito” e che nessuno dei suoi parenti venga ospitato in Rai, come avvenne per Riina junior. “C’è ancora un capomafia latitante, Matteo Messina Denaro, ci auguriamo che venga quanto prima assicurato alla giustizia”, ha concluso Bindi.
MORI. “Provenzano non lascia alcun potere concreto, ma fortunatamente solo poco più che le macerie della sua organizzazione. Il suo erede dovrebbe essere Matteo Messina Denaro; più che il successore mi sembra un uomo in fuga. E soprattutto non più in grado di ridare basi solide a Cosa nostra”. E’ quanto afferma al Quotidiano nazionale il generale Mario Mori, ex capo dei Ros ai tempi della cattura di Riina. Alla domanda su come è stato possibile che lo Stato non sia riuscito a catturare il boss Bernardo Provenzano ben prima, Mori replica: “Non è facile dare una risposta in merito. Penso che solo dopo lo sviluppo di tecniche investigative più aderenti e specifiche, unite alla raggiunta consapevolezza generale della negatività di un mondo rappresentato da Cosa nostra, peraltro sempre più avulsa dalla realtà sociale anche in quelle terre dove il fenomeno aveva preso l’avvio, abbia consentito i risultati che tra l’altro hanno portato agli arresti di Riina e Provenzano. Da qui è derivato il progressivo sfaldamento dell’organizzazione”.
Dopo la scomparsa di Bernardo Provenzano sono ancora tre i boss dei Corleonesi ancora in vita e tutti si trovano in carcere: Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. Con loro dietro le sbarre anche il boss palermitano Salvatore Lo Piccolo. Resta in libertà invece Matteo Messina Denaro.
SALVATORE RIINA. Il ‘Capo dei Capi’ dei Corleonesi, oggi 85enne, è stato arrestato il 15 gennaio 1993 a Palermo e sta scontando l’egastolo. Figlio di contadini dopo aver conquistato l’egemonia nel suo Paese natale insieme alla banda guidata da Luciano Liggio con l’uccisione del boss locale Michele Navarra, ‘Totò U Curtu’ nel 1969 con la strage di Viale Lazio, dove fu ucciso il boss Michele Cavataio, entra di prepotenza nella scena della mafia palermitana. Con gli assassinii nel 1981 di Stefano Bontate e Salvatore Inserillo diede il via alla seconda guerra di mafia al termine della quale prese il controllo della malavita cittadina. Riina è considerato il mandante di diversi omicidi il più grave dei quali è la strage di Capaci dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone.
LEOLUCA BAGARELLA. Storico braccio destro di Totò Riina del quale è anche il cognato, oggi ha 74 anni ed è detenuto dal 24 giugno 1995. Killer spietato, è considerato l’esecutore materiale di centinaia di delitti nel corso della seconda guerra di mafia e di altri eccellenti fra i quali quello del commissario Boris Giuliano e del piccolo Giuseppe Di Matteo. Dopo l’arresto di Riina, Bagarella prese il comando dell’ala militare di Cosa Nostra che era favorevole alla continuazione della cosiddetta strategia stragista prima di essere catturato.
GIOVANNI BRUSCA. Oggi, 59 anni, Brusca è il più noto pentito di Cosa Nostra. Capo del mandamento di San Giuseppe Jato è stato arrestato il 20 maggio 1996. Brusca ricoprì un ruolo fondamentale nella strage di Capaci in quanto fu l’uomo che spinse il tasto del radiocomando a distanza che fece esplodere il tritolo piazzato in un canale di scolo sotto l’autostrada facendo saltare in aria le auto di Giovanni Falcone e della sua scorta. Dopo il pentimento, la condanna gli è stata ridotta dall’ergastolo a 20 anni di relcusione.SALVATORE LO PICCOLO. Palermitano, 73 anni, è stato arrestato insieme al figlio Sandro il 5 novembre 2007. Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano strinse un’alleanza di ‘non belligeranza’ con Matteo Messina Denaro per il controllo di Cosa Nostra. Condannato all’ergastolo, il suoi clan era molto attivo nel settore dello spaccio di droga e della gestione degli appalti.
MATTEO MESSINA DENARO. La ‘primula rossa’ di Cosa Nostra. E’ l’uomo più ricercato d’Italia e l’attuale capo della Mafia dopo esserlo stato inizialmente di quella trapanese. Oggi ha 54 anni. E’ irreperibile dal 1993.
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