Lei è presidente onorario della FAI, la Federazione delle associazioni antiracket. Cominciamo allora dal mondo dell’associazionismo antiracket.
«Il problema qui si pone in maniera diversa. Tra le associazioni antimafia, infatti, solo quelle antiracket sono le uniche a essere regolate e controllate per legge: dal 1994, per iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Maroni, esiste un regolamento che prevede l’iscrizione delle associazioni all’albo delle Prefetture. Da allora il regolamento è stato modificato con il decreto ministeriale numero 220 del 2007, e a giorni sarà ulteriormente emendato per iniziativa del prefetto Santi Giuffrè, commissario nazionale antiracket».
E che cosa cambia?
«Si restringono di molto le maglie di accesso agli albi delle Prefetture: un’associazione antiracket per essere tale deve promuovere le denunce delle vittime, deve saper accompagnare gli operatori economici in tutte le fasi processuali, deve aiutare anche nel momento in cui emergono problemi per l’azienda e la sicurezza personale, deve costituirsi parte civile. Quindi, per essere tale, un’associazione antiracket non può più limitarsi a fare due convegni l’anno ma dimostrare di essere attiva sul piano delle denunce e dell’accompagnamento della vittima. Da sempre questa è la posizione della FAI e, non a caso, abbiamo anche avanzato delle riserve nel 2007 perché già allora dovevano essere più rigidi i criteri di valutazione. Per fortuna tra qualche giorno questo problema sarà risolto dal nuovo regolamento».
E questo che cosa determinerà?
«Si rafforzerà quello che noi come FAI abbiamo sempre curato con un’attenzione speciale: cioè la linea di demarcazione tra chi esiste solo sulla carta e chi invece produce risultati concreti. Che cosa andiamo dicendo da sempre? Che un’associazione che non produce denunce non è un’associazione antiracket; questa è la pre-condizione in base alla quale si ha la distinzione tra l’antiracket dei fatti e quella delle parole».
Non crede che certe insidie possano annidarsi però anche nel momento delle denunce? In passato abbiamo assistito a più di un caso rivelatosi poi strumentale.
«Certamente. Anche con le denunce bisogna stare molto attenti perché ci possono essere denunce fatte da imprenditori in maniera anche strumentale».
Strumentali: in che senso?
«Nel senso che imprenditori che magari hanno denunciato determinando la condanna degli estorsori possano poi trovarsi ugualmente indagati per reati di mafia. A volte si denuncia chi è già stato scoperto o ha un ruolo marginale nell’organizzazione criminale e si nascondono relazioni ben più impegnative. Quando si denuncia bisogna sempre denunciare tutto senza alcuna reticenza».
E come ci si mette al riparo da questo rischio?
«Quando un anno fa fu sollevato il caso di un gruppo di imprenditori che volevano costituire un’associazione antiracket risposi che noi come FAI abbiamo una modalità operativa che, in un certo senso, ci mette al riparo da strumentalizzazioni. Mi spiego meglio: non siamo solo noi a decidere se un imprenditore può aderire o meno all’associazione; quando un imprenditore chiede l’adesione ci consultiamo preliminarmente con le forze dell’ordine, la cui valutazione diventa determinante. In questo modo è difficile uscire dai binari della correttezza».
Venticinque anni fa nasceva l’antiracket. A un quarto di secolo, oggi, che cosa cambia rispetto a quella fantastica esperienza iniziata in Sicilia, a Capo d’Orlando?
«Quando il movimento è nato, nel 1990, c’era una “reticenza” persino nell’uso delle parole. Era difficile pronunciare la parola racket. Oggi siamo in una situazione opposta, nella quale registriamo un’overdose di parole: è difficile trovare uno che non dica che “la mafia fa schifo”, oppure che dica che “l’imprenditore fa bene a pagare il pizzo perché vi è costretto”. Proprio perché siamo di fronte a questo surplus terminologico bisogna rafforzare il criterio di valutazione sui fatti. Oggi abbiamo processi con addirittura decine di costituzioni di parti civili, ma può mai essere questo il criterio? La misura di valutazione dipende sempre e solo dalle denunce. E poi per esperienza sappiamo – come per esempio si è dimostrato nel caso di Ercolano – che le denunce vengono sempre dopo la costituzione dell’associazione antiracket. Per questo la FAI promuove la nascita di associazioni composte da operatori economici; e anche in questo caso seguendo rigide procedure codificate in anni di esperienza».
In Sicilia si è posta una questione giudiziaria che investe direttamente il presidente di Confindustria. Qual è la sua posizione al riguardo?
«Noi come Federazione delle associazioni antiracket nutriamo incondizionata fiducia nell’operato dell’autorità giudiziaria e siamo certi che, trovandoci ancora nella fase delle indagini preliminari, saprà prendere la decisione più giusta che dovrà meritare il consueto rispetto. Dopodiché, però, la notizia di un’indagine che coinvolge il vertice di Confindustria Sicilia non può essere utilizzata per cancellare il valore della rivoluzione che Confindustria stessa ha avviato nel 2007. Grazie a Confindustria la lotta al racket ha compiuto uno straordinario salto di qualità: per oltre 15 anni l’antiracket ha visto come protagonisti piccoli e piccolissimi operatori economici, soprattutto commercianti. In tutto questo tempo il mondo della grande impresa è rimasto del tutto estraneo alle dinamiche di opposizione alla mafia, e noi sappiamo bene che hanno effetti diversi l’acquiescenza di un commerciante con la sua azienda familiare rispetto a quella di una grande impresa con centinaia di dipendenti».
In che senso?
«L’acquiescenza di una grande impresa rappresenta un formidabile pilastro del potere mafioso nel controllare l’economia e il territorio: ecco perché non è esagerato parlare di rivoluzione a proposito di quelle che sono state le scelte compiute da Confindustria Sicilia. Perché la loro iniziativa ha aperto nella storia secolare dell’antimafia un significativo varco attraverso l’opposizione della grande impresa».
Ma insomma, entrando nel merito della vicenda gudiziaria che sta interessando Antonello Montante, qual è il problema vero?
«Leggendo certi commenti su questo caso ho avuto la sensazione di un pregiudizio ideologico, certamente non da parte dei magistrati che indagano sul presidente siciliano di Confindustria».
Cioè?
«Individuo tre aspetti. Il primo: non si può – quando si fa riferimento a Confindustria Sicilia – parlare come fa qualcuno di “antimafia padronale” in termini chiaramente dispregiativi. A mio avviso, anzi, è il contrario: nella scelta di una parte dei datori di lavoro di rompere ogni legame con la mafia si manifesta un fatto straordinariamente innovativo. Il problema vero è che la cosiddetta “antimafia padronale” dovrebbe essere ancora più forte, e soprattutto più presente in altre aree del Paese: dalla Calabria al Nord. Cosa che invece non succede. Secondo punto, che è direttamente legato alla concreta esperienza del movimento antiracket: già oltre 20 anni fa Umberto Santino colse la caratteristica fondamentale di questo movimento, che risiede nel “connubio tra interessi e valori”. L’antiracket dimostra che l’opposizione alla mafia non può svolgersi solo sul terreno di un’opposizione morale, ma per essere efficace deve riuscire a mettere in moto interessi».
Quali interessi?
«Detto in altre parole: l’opposizione alla mafia deve essere conveniente anche perché oggi il movente prevalente dell’acquiescenza non è la paura, come poteva esserlo 30 anni fa, ma la convenienza. Chi paga il pizzo lo fa perché da questa sottomissione ricava un vantaggio “ambientale” per la propria azienda. La vera sfida dell’antimafia oggi si gioca sul terreno della convenienza, che è cosa assai diversa da una politica premiale, questione sulla quale da sempre noi siamo stati contrari».
C’è anche chi sostiene che l’antimafia oggi non può che essere un fenomeno di opposizione al “potere”. Lei che ne pensa?
«E qui vengo all’ultimo punto, dicendo che un movimento antimafia oggi deve essere opposizione al potere mafioso, e non a quello istituzionale. Anche qui è indispensabile richiamare il senso della storia: c’è stato un lunghissimo periodo – che schematicamente, e quindi con una forzatura potremmo ricondurre fino al pool di Giovanni Falcone – in cui opporsi alla mafia comportava necessariamente opporsi anche a quei poteri che della mafia erano complici, o alla quale si mostravano indifferenti. In quel momento aveva senso l’opposizione al potere perché ci si doveva opporre alla politica e alle istituzioni, magistrati e forze dell’ordine in primis. In quella lunghissima stagione era difficile trovare nelle istituzioni interlocutori credibili».
E da allora a oggi che cosa è cambiato?
«Sicuramente sotto il profilo delle istituzioni siamo in un mondo completamente diverso, e in parte anche rispetto alla politica. Che senso ha oggi parlare di generale opposizione per essere un’antimafia “non ammaestrata” o “non sottomessa”? Gli interlocutori fondamentali del movimento antiracket, senza i quali oggi non avremmo ottenuto risultati, sono i prefetti, i procuratori della Repubblica, poliziotti, carabinieri e finanzieri. Voglio dire che la qualità della professionalità e la natura delle motivazioni di queste donne e di questi uomini non possono essere per nulla paragonati a 30 anni fa. E oggi non ha più alcun senso la conflittualità del movimento della società civile con questi profili istituzionali. Poi per la politica il discorso è diverso».
E, tornando all’antiracket, quali sono stati i cardini su quali si è costruito il movimento?
«C’è un punto fermo nella nostra storia: abbiamo capito che rendere efficace la nostra iniziativa ci obbligava a essere rigorosamente apartitici e anche, in un certo senso, paraistituzionali nel momento in cui interveniamo con le nostre vittime nei procedimenti penali. Ognuno di noi ha dovuto rinunciare a esplicitare i propri orientamenti politici e a volte ha dovuto contenere le polemiche per rabbia o per indignazione: ma questo è stato il prezzo da pagare per poter svolgere correttamente il nostro lavoro. D’altronde alla stessa limitazione sono sottoposti i magistrati e i rappresentanti delle forze dell’ordine. Se l’antimafia apparisse di parte, allora sì che sarebbe indebolita la battaglia contro la criminalità organizzata».
Torniamo alla “Carta delle antimafie”. Su quali basi va fondata, e perché?
«Facciamo una premessa: oggi l’antimafia non può che essere plurale. Non può esserci una sola antimafia, ma le antimafie; e di conseguenza non può esserci un pensiero unico dell’antimafia o un’unica centrale che distingue i buoni dai cattivi. Il vero problema è che tutte le esperienze devono condividere momenti di reciproca legittimazione. E’ indispensabile il confronto e anche la concorrenza, che non necessariamente è una brutta parola… L’importante è sottrarsi ad una sterile conflittualità. Da quando la FAI non è più l’unico soggetto dell’antiracket per noi c’è stato un grande arricchimento e un potenziamento. I monopoli fanno sempre male, anche nell’ambito dell’associazionismo, e tanto più nell’antimafia».
E come ci si deve muovere per far nascere questa Carta delle antimafie?
«Questo è l’invito che sottoponiamo a tutti gli altri protagonisti dei movimenti della società civile: ragioniamo insieme e individuiamo princìpi, regole e modalità concrete per stilare una “carta” comune. Centrare questo obiettivo sarà di grande importanza per tutti, ma soprattutto per il nostro Paese. Poi, che ci siano indagini istituzionali o inchieste giornalistiche sul mondo dell’associazionismo antimafia è un bene per tutti. Del resto, proprio la Commissione antimafia la scorsa estate ha realizzato una serie di audizioni sul movimento antiracket; e bene ha fatto: da quell’inchiesta sicuramente noi ne siamo usciti rafforzati (così come dopo il provvedimento di archiviazione del 3 novembre 2014 della Corte dei Conti di Napoli sulla gestione dei fondi del PON Sicurezza). Ciò che bisogna evitare è una pericolosa generalizzazione che alla fine azzera le importanti iniziative della società civile contro la mafia».
L’intervista è stata realizzata da Giuseppe Crimaldi