PALERMO – C’è nell’aria il pericolo di un ritorno al passato con la mafia che si fa sempre più aggressiva e menti raffinatissime di Cosa nostra che soffiano sul disagio sociale alimentando anche le minacce ai magistrati e a chi è impegnato sul fronte antimafia. L’allarme è di Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto del capoluogo siciliano: in sala, in un palazzo di giustizia blindatissimo anche e soprattutto le ultime minacce di Totò Riina al pm Nino di Matteo, il presidente del Senato Pietro Grasso, rappresentanti della politica (il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e il presidente della regione Rosario Crocetta) e ovviamente i vertici del tribunale palermitano a partire dal presidente della Corte d’Appello Vincenzo Olivieri cui è toccato il compito di relazionare sull’andamento della giustizia nel distretto.
Ed è stato lui a parlare di una cerimonia stantia, ripetitiva, in cui i problemi e o nodi sono più o meno sempre lì anche se, ha detto, negli ultimi anni a Palermo si registra un’aria diversa e più serena. Una relazione, quella del presidente di Corte d’Appello, in cui oltre alle considerazioni generali sullo stato della giustizia è possibile rinvenire anche riferoimenti alla stretta attualità, alla sovraesposizione mediatica di certi magistrati: «Non mi piacciono i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo: quei magistrati (pochissimi per fortuna) che sono convinti che la spada della Giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene- dice Olivieri -. Dicono di essere impegnati ad applicare solo la legge senza guardare in faccia nessuno, ma intanto parlano molto di sé e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell’imparzialità, che è la sola nostra divisa, non bastano frasi a effetto, intrise di una retorica all’acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrati più umani». Secondo parecchie opinioni il riferimento è ad Antonio Ingroia, l’ex magistrato antimafia che ha lasciato la toga per candidarsi alle politiche e ora ha avuto dalla Regione l’incarico di liquidatore di una partecipata ma forse non solo a lui. «Non trovo nulla da eccepire – dice ancora il presidente di Corte d’appello – sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche. Candidandosi, esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini. Piero Calamandrei diceva però che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra. Come dire i giudici, oltre che essere imparziali, devono anche apparire imparziali».
Ma è Scarpinato che incassa un lungo applauso con un discorso che punta dritto alle questioni: «La ripetitività di questo rituale (la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario ndr) e delle analisi in questa sede si scontra con i cambiamenti di sistema che impongono una modifica radicale nella valutazione dei fatti e delle risposte. Serve anche una nuova e forte spinta repressiva di fenomeni come la corruzione. Modesti palliativi sono i provvedimenti fin qui emanati dal governo come l’ultima legge anticorruzione; altri indeboliscono la fiducia sulla certezza della pena e in generale sulla giustizia come lo svuotacarceri». La corruzione, in Sicilia, secondo l’analisi del propcuratore generale è da considerare un sistema criminale perché i fatti corruttivi sembrano slegati tra loro ma non lo sono. E la corruzione è alla base dei problemi, seri, dell’isola. Nel solo settore della formazione, ha aggiunto, «dal 2003 al 2013 sono stati dissipati 3 miliardi di euro. Scelte politiche hanno depotenziato l’incisività dell’azione della magistratura contro la ramificata attività di corruzione. Scelte gravi». Con conseguenze, per Scarpinato, letali: «L’alleanza tra istituzioni e società civile si fondava sulla promessa-scommessa che si potevano legare legalità e sviluppo. Si era creata, dunque, una forte aspettativa. Ma la crisi e la costante predazione dei fondi pubblici hanno diffuso l’idea che tutto ciò sia stato tradito o sia stata un’illusione. Su questa disillusione soffiano menti raffinate della criminalità organizzata che additano come responsabile la magistratura, facendoci precipitare nel clima culturale degli anni Ottanta. In questi mesi, in occasione di manifestazioni popolari di protesta si é dovuto assistere a scene analoghe a quelle della Palermo della fine degli anni Ottanta, quando mille operai edili rimasti senza lavoro dopo che la giunta Orlando aveva revocato all’impresa Cassina l’appalto per la manutenzione della rete viaria e fognaria, scesero in piazza inalberando cartelli dove era scritto ‘vogliamo la mafià oppure ‘con la mafia si lavora senza no».
Ecco perché diventa particolarmente insidiosa «l’escalation di intimidazioni ai magistrati e le veementi minacce di morte di Riina che non ci hanno stupito affatto». E poi ha aggiunto: «A Palermo, in Sicilia, in questo laboratorio politico nazionale, in questa frontiera avanzata delle istituzioni dove per dare senso e contenuto alle parole legalità e Stato sono stati versati fiumi di sangue e di lacrime -continua Scarpinato- è dunque in corso una sfida drammatica la cui posta in gioco non é uno algido scarto percentuale in più o in meno del numero dei processi definiti, il fatturato dell’azienda giustizia, come si usa ripetere mutuando locuzioni gergali della cultura egemone mercatista. No: qui la posta in gioco é molto più alta e drammatica: è la credibilità stessa delle istituzioni, è il bene prezioso di una fiducia collettiva perduta, ritrovata e che rischiamo nuovamente di smarrire».
Appare incomprensibile, sostiene il procuratore generale di Palermo, la scelta operata nel recente decreto legge cosiddetto “svuota carceri”, «di aggravare ancor di più la situazione estendendo anche agli esponenti della criminalità organizzata l’innalzamento da 45 a 75 giorni dello sconto di pena previsto per la liberazione anticipata a far data dal 2010. Una pena di sei anni si ridurrà quindi a tre anni e mezzo e decine di pericolosi mafiosi a breve termine e nei prossimi anni ritorneranno in libertà anzitempo. Si ha talora la sensazione – ha concluso il procuratore generale – che la legislazione statale assomigli ad una sorta di tela di Penelope che da una parte viene tessuta con l’introduzione di nuove norme per rendere più efficace l’azione repressiva, e dall’altra viene in parte smagliata depotenziando la stessa risposta repressiva».