PALERMO – Riformare l’articolo 416 bis del codice penale introducendo una nuova fattispecie normativa che possa colpire i colletti bianchi che aiutano o fanno affari con le mafie. E fermare così l’evoluzione delle organizzazioni criminali nel nostro Paese che sparano sempre di meno e utilizzano sempre più spesso il metodo corruttivo-collusivo per imporre il loro potere. Perché le mafie stesse sono composte da uomini che non sono più quelli del passato: meno manovalanza e più colletti bianchi.
Si può riassumere così il pensiero di Franco Roberti, capo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, che a questo tema ha dedicato un ampio capitolo della relazione presentata al Parlamento all’inizio di marzo. Il procuratore arriva a questa conclusione attraverso un’analisi del fenomeno mafioso che parte proprio dalle intuizioni di Giovanni Falcone e che nel XXIV anniversario della strage di Capaci in cui morì Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro) è utile ricordare: «Secondo Giovanni Falcone prima della sua (inevitabile fine), la mafia, di continuo e immancabilmente si evolve. Ed evolversi, nel caso della mafia e di qualsiasi altra struttura umana, non significa cambiare ciascuno i propri caratteri. Piuttosto l’evoluzione di qualsiasi struttura vitale è la sua capacità di adattamento ai mutamenti dell’ambiente circostante – scrive Roberti -. Evolversi, allora, vuol dire rimanere se stessi, ma avendo la capacità di mutare abitudini, di sviluppare nuove sensibilità, nuove capacità e nuove caratteristiche in funzione della necessità di renderle funzionali ai nuovi tempi, alle nuove sfide, alle nuove necessità».
Il mutamento mafioso è in atto
Lo scenario dagli anni Ottanta a oggi è radicalmente cambiato e il 416 bis così com’è appare praticamente inadeguato. Le mafie hanno trovato e trovano, in questo processo di mutamento, soggetti disponibili, soggetti il cui scopo non è «come per i mafiosi, l’esercizio di un potere assoluto e illegale sulla società civile nei suoi diversi aspetti. Ma l’incontro con la mafia è una opportunità, meglio ancora un affare». Chi sono questi soggetti? Coloro che oggi classifichiamo nell’ambito dei concorrenti esterni, per i quali la mafia è un mezzo per raggiungere un’utilità. «Il commercialista, l’agente di borsa o l’intermediario finanziario – spiega Roberti – che riciclano i soldi dei mafiosi, pensano, soprattutto, che stare con la mafia sia un buon affare. Lo stesso pubblico ufficiale corrotto e colluso (ovviamente non il politico organico all’associazione che conquista e conserva il potere grazie alla mafia) non agevola la mafia per il potere, perché quello già lo esercita, ma perché anche lui pensa che la mafia è ricca, quindi può pagarlo o comunque agevolarlo e che, perciò, sia un buon affare. E lo stesso imprenditore socio dei mafiosi, che giovandosi del loro potere di comando, sbaraglia la concorrenza, o meglio, la blocca e diviene oligopolista, non lo fa per sete di potere, perché vuole dominare gli altri, ma ancora una volta perché in questo modo fa ottimi affari». Un ragionamento che fa il paio con un’altra considerazione: il tasso di violenza, di sangue versato, presente nelle attività criminali è fortemente diminuito negli ultimi anni. Un dato su tutti: gli omicidi dall’inizio degli anni Novanta a oggi sono diminuiti di quattro volte. La violenza, dunque, sembra essere diventata residuale (a parte qualche eccezione) e la pax mafiosa duratura è figlia di un mutamento strutturale «conseguenza cioè che è in atto quella che, per l’appunto Giovanni Falcone definiva evoluzione delle mafie che stanno mutando pelle, stanno cambiando metodo e strategia sotto i nostri occhi, sicché sarebbe errore incalcolabile continuare a usare sempre i vecchi parametri per comprenderle e quindi contrastarle» dice il procuratore.
Corruzione e collusione nuovi strumenti di dominio criminale
Cosa è accaduto in questi anni? I procedimenti delle varie direzioni distrettuali antimafia evidenziano sul piano del controllo delle attività economiche che interi villaggi turistici del valore di centinaia di milioni di euro, centri commerciali in Sicilia, Calabria, Campania, grandi alberghi a Roma e in molte altre località turistiche rinomate, una miriade di attività produttive, finanziarie ed edilizie nel Centro e nel Nord del Paese, erano in mano alle mafie che«non a caso – dice Roberti – sembrano essersi delocalizzate o proiettate o stabilite, lontane dalle zone di origine e dalla casa madre, per invadere le parti del Paese nelle quali si spara meno e si fanno più affari». Altro fronte è quello degli appalti pubblici: in questo caso un numero sempre crescente di amministratori (e fra queste quelli di città capoluogo di provincia e di grandi metropoli come Roma) magistrati, politici, non solo nel Mezzogiorno d’Italia, sono risultati collusi con esponenti di associazioni mafiose. «La penetrazione all’interno di appalti pubblici appare non solo aumentata quantitativamente ma anche modificata qualitativamente – si legge nella relazione -. Sul piano della sua estensione il fenomeno si sta allargando sempre di più e riguarda non solo i tipici settori degli appalti legati alle attività edilizie, stradali, al ciclo dei rifiuti ma, anche, in quello della sanità e dell’assistenza pubblica, dove, senza sparare un colpo di arma da fuoco, gli imprenditori delle mafie (in Sicilia, Calabria, Lazio e Campania ma anche altrove) sono entrati, ora in un modo ora in un altro, ora operando dall’esterno ora dall’interno, nelle Asl, nei Comuni e negli ospedali. Sul piano delle sue modalità operative la penetrazione delle imprese mafiose in tutti questi settori, più che svolgere una azione diretta di interdizione sulla concorrenza – con sistemi intimidatori quanto violenti – punta alla collusione dell’imprenditore mafioso con coloro che gestiscono le gare. In altri termini appare sempre più esteso il fenomeno del funzionario o del politico a libro paga, che viene delegato dal sodalizio a ottenere il risultato di agevolare sistematicamente, sempre e comunque, le proprie imprese nella acquisizione di appalti e servizi pubblici in un dato settore». L’indagine di Roma su Mafia Capitale ha poi rivelato un altro aspetto inquietante: quello delle «attività tese a influenzare illecitamente le nomine dei dirigenti e dei responsabili dei servizi e degli uffici pubblici che governano il settore economico che il sodalizio intende egemonizzare».
La proposta di riforma
Ecco dunque il perché di un auspicato lavoro normativo per rendere più concreto ed efficace l’articolo 416 bis del codice penale con una modifica che dal punto di vista tecnico, spiega Roberti, potrebbe essere congegnata con un intervento sul settimo comma «per dare sostanza normativa al cosiddetto metodo corruttivo-collusivo». Questo comma, potrebbe prevedere che «Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto dei delitti, ovvero sono acquisite, anche solo esclusivamente, con il ricorso alla corruzione o alla collusione con pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio, ovvero ancora, con analoghe condotte tese al condizionamento delle loro nomine, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà». Dice Roberti: «Dobbiamo immaginare il sistema di potere mafioso evoluto come una struttura che mantiene le proprie basi nella forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, che è il pesante e solido cemento con cui ha realizzato le fondamenta della propria egemonia, ma che, sempre più, si sviluppa e si ramifica verso l’alto, mirando a gestire quote sempre più ampie ed elevate di potere economico e politico, utilizzando un materiale e uno strumento più duttile, leggero, invisibile, ma capace di infiltrarsi profondamente: quello della corruzione-collusione, che garantisce, silenziosamente, senza un colpo di fucile, ma in modo egualmente efficace, il raggiungimento delle descritte finalità delle mafie».
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