PALERMO – Hanno denunciato il racket, indicato pubblicamente gli esattori del pizzo. Rischiano la pelle ma rischiano anche di veder scomparire da un momento all’altro ciò che hanno creato in anni di sacrifici e che hanno voluto difendere dall’arroganza e prepotenza della mafia: le aziende. Sono una trentina le imprese con un fatturato sopra i cinque milioni di euro che oggi si trovano assediate da forme più subdole di attacco mafioso: quello della calunnia, della delegittimazione, dell’indifferenza e del muro alzato da tanti che hanno scelto il quieto vivere. Una situazione di isolamento che crea certo sfiducia e che sta anche mettendo alcune di queste aziende con le spalle al muro.
Una condizione di disagio di cui si fa portavoce, per l’ennesima volta, Giuseppe Todaro, ex vicepresidente di Confindustria Palermo e oggi consigliere con delega alla legalità, imprenditore che ha denunciato i suoi estorsori e che ha un ruolo importante nel movimento antiracket palermitano.
«Ci sono due ordini di problemi – spiega Todaro -. Il primo riguarda l’ambiente che non recepisce la scelta della denuncia della mafia». E così in questo caso di fronte a un panificio il cui titolare ha fatto la scelta di denunciare il racket i clienti si ritirano piano piano, fino a sparire del tutto. Forse non c’è una strategia precisa ma di sicuro, in questo caso, potrebbe esserci la necessità di non inimicarsi il capoclan della propria zona che certo non vede di buon occhio la scelta di fornirsi da chi ha denunciato Cosa nostra. Così è avvenuto per i gelati (Todaro ne è produttore) che alcuni piccoli supermercati palermitani non hanno voluto commercializzare. «La seconda questione è un po’ più complessa – dice Todaro -. In alcuni territori nascono o sono nate attività che sono in diretta concorrenza con chi ha denunciato. Aziende create da soggetti non proprio trasparenti che possono contare su quella grande liquidità finanziaria che chi ha denunciato la mafia non ha».
Chi ha grandi disponibilità finanziare può fare ovviamente grandi investimenti e sbaragliare la concorrenza. Senza contare che, come numerose inchieste hanno dimostrato, spesso in queste imprese il lavoro nero o malpagato permette al titolare di praticare prezzi concorrenziali che chi opera nella legalità non può permettersi. A questi due punti se ne aggiunge però un terzo che, se vogliamo, è ancora più grave: l’uso sistematico della calunnia, vecchio arnese della mafia siciliana e non solo, per delegittimare che ha fatto la scelta della denuncia. Un sistema utilizzato per mantenere il controllo dei quartieri, dove a essere interessati dal pizzo sono i commercianti o i titolari di piccole attività, ma soprattutto per disincentivare grandi aziende di vari settori (quello edile è sicuramente il più gettonato) dove vale la regola non solo del pagamento del pizzo negli appalti (il famigerato 3% fisso ormai è storia) ma anche con l’imposizione di forniture. «Nell’ambito degli appalti – dice ancora Todaro – la pressione è ancora molto forte». Ne sanno qualcosa i titolari di imprese che forniscono calcestruzzo e che hanno scelto la via della denuncia oppure costruttori che si sono schierati con Libero Futuro, l’associazione antiracket che porta il nome di Libero Grassi, l’imprenditore che è stato ammazzato il 29 agosto del 1991 proprio per aver detto di no alla mafia: imprenditori schedati sul fronte della legalità che hanno visto diminuire e di parecchio il loro giro d’affari. La soluzione? «Fare gruppo – dice Todaro – mettersi insieme». Un progetto, che però presenta parecchi aspetti complessi e dunque richiede più tempo per essere realizzato, è quello che prevede la creazione di consorzi in cui siano presenti vari soggetti della stessa filiera che siano schierati dalla parte della legalità.
L’altro progetto, invece, prevede la creazione di Associazioni temporanee di imprese omogenee, nel senso che appartengono tutte al fronte antimafia, il cui valore aggiunto è quello di essere schierati contro Cosa nostra e di essere “certificate”. Ma anche in questo caso, almeno per quanto riguarda i lavori pubblici, andrebbe valutato l’impatto con le cosiddette white list ormai diventate operative.
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