Torna libero dopo 4 anni e 11 mesi Salvatore Cuffaro. L’ex governatore della Sicilia ha scontato la sua condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia, e la sua scarcerazione dall’istituto penitenziario romano di Rebibbia è prevista per oggi, domenica 13 dicembre. Totò Cuffaro è stato in carcere meno di cinque anni, grazie all’indulto di un anno per i reati «non ostativi» e lo sconto di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta. Finisce così quello che ha più volte definito un calvario, e torna uomo libero.
L’ex presidente della Regione siciliana, il politico che ha scontato la pena più lunga, non può assumere incarichi pubblici. Glielo impedisce l’interdizione alla quale è stato condannato. Ma tutti pensano che avrà o gli attribuiranno un ruolo politico. L’unica cosa che Cuffaro ha detto, in una lettera al governatore siciliano Rosario Crocetta, è il suo desiderio di recarsi presto in Burundi come volontario. «Ho già preso contatto – ha scritto – e andrò in Burundi a fare il medico volontario presso l’ospedale Cimbaye Sicilia, l’ospedale che, quand’ero Presidente, la Regione Siciliana ha finanziato con i soldi del Fondo della Solidarietà».
La storia giudiziaria che poi ha portato alla condanna di Cuffaro comincia il 5 novembre 2003 con la scoperta di «talpe» negli uffici della Procura. La rete di spionaggio, che fa capo al ras della sanità privata Michele Aiello prestanome di Bernardo Provenzano, si regge su due insospettabili, Giorgio Riolo sottufficiale del Ros dei carabinieri e Giuseppe Ciuro della Dia, che vengono arrestati. Sono la punta emergente di un sistema di complicità sommerse ma anche di truffe al sistema sanitario. Le indagini coinvolgono un altro sottufficiale dell’Arma, Antonio Borzacchelli, il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro e il presidente della Regione, Salvatore Cuffaro. Il governatore viene individuato, attraverso intercettazioni, come un punto di snodo della rete delle talpe. Sarebbe stato lui il principale terminale delle fughe di notizie su indagini riservate. Il 2 novembre 2004 Cuffaro è rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra e rivelazione di segreti d’ufficio.
Il processo si apre il primo febbraio 2005 davanti alla terza sezione del tribunale e si conclude il 18 gennaio 2008 con la condanna a 5 anni di reclusione. Confermate tutte le imputazioni ma cade l’aggravante del favoreggiamento della mafia. Pesanti le pene per gli altri imputati: 14 anni a Michele Aiello, 7 a Riolo. Cuffaro, che intanto è stato rieletto nel 2006 presidente della Regione, annuncia che non si dimetterà. Ma le polemiche subito esplose vengono rinfocolate da un’immagine che riprende il governatore con un vassoio di cannoli siciliani. Lui nega di volere «festeggiare» la condanna per favoreggiamento semplice ma l’eco mediatica lo induce a fare un passo indietro e il 26 gennaio 2008 si presenta all’Ars per presentare le sue «dimissioni irrinunciabili» e per annunciare: «Mi batterò in tutte le sedi per affermare la verità».
L’appello però aggrava la posizione dell’ex presidente della Regione. Il 23 gennaio 2010 la corte d’appello di Palermo riconosce l’aggravante del favoreggiamento di Cosa nostra e condanna Cuffaro a 7 anni. La pena è aumentata anche per Aiello a 15 anni e 6 mesi e per Riolo a 8 anni. L’ultimo atto di una vicenda che segna la caduta del politico da un milione di voti viene scritto dalla Cassazione il 22 gennaio 2011. Le condanne vengono confermate mentre Cuffaro attende il verdetto raccogliendosi in preghiera in una chiesa e invocando la Madonna. Quando conosce la sentenza prende la strada del carcere di Rebibbia. Prima di varcare il portone del carcere dice ai cronisti: «Sono un uomo delle istituzioni e ho rispetto della magistratura. Affronterò la pena com’è giusto che sia».
L’ex presidente della Regione siciliana, come confermano i legali, torna libero dopo avere scontato 5 anni, dei sette, previsti dalla condanna per favoreggiamento alla mafia. Una riduzione della pena per buona condotta, così come avviene per qualunque detenuto. Cuffaro – difeso dagli avvocati Nino Caleca e Marcello Montalbano – attese la sentenza definitiva della Cassazione pregando in una chiesa di Roma e giunse a Rebibbia, a piedi, il 22 gennaio 2011. Da allora ha scritto libri, è notevolmente dimagrito, ha studiato per conseguire la seconda laurea in Giurisprudenza.