L’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio, in cui sono morti il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta, è stata caratterizzata da “omissioni e reticenze” di magistrati, esponenti dei servizi segreti e vertici della polizia”. Non solo. “La stessa mano, non mafiosa, che accompagnò Cosa nostra nell’organizzazione della strage di via D’Amelio potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio e allontanare le indagini dall’accertamento della verità”.
E’ la conclusione cui è giunta la commissione regionale antimafia guidata da Claudio Fava e raccontata in dettaglio nelle ottanta pagine della relazione conclusiva. Un’inchiesta avviata dopo le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino, la più piccola dei figli del giudice assassinato dalla mafia il 19 luglio 1992.
“Il ruolo dei servizi segreti è stato pervasivo: la mano che sottrasse l’agenda rossa di Borsellino non è una mano mafiosa. Il primo atto della procura di Caltanissetta, un atto contro la legge, è la richiesta al Sisde di dirigere nella fase iniziale le indagini su via D’Amelio. La procura di Caltanissetta all’indomani della strage di Capaci aveva scelto, per 57 giorni, di non ascoltare Paolo Borsellino e poi, due ore dopo la strage di via D’Amelio, ha scelto di affidarsi al Sisde. L’impulso è partito dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, ma si suppone che gli altri magistrati ne fossero a conoscenza” ha detto il presidente della commissione regionale Antimafia Claudio Fava nel corso di una conferenza stampa in cui ha presentato la relazione della commissione, 80 pagine, sul depistaggio di via D’Amelio.
Nella relazione si legge che c’è stata “un’anomala, significativa e determinante (negli esiti) collaborazione tra la procura di Caltanissetta e i vertici dell’allora Sisde”.
Il secondo aspetto sul quale si concentra il lavoro della commissione Antimafia riguarda la gestione della collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri “sedicenti collaboratori di giustizia”. Un intero capitolo della relazione della commissione è dedicato al ruolo di Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo al quale vennero affidate le indagini su via D’Amelio, così come era accaduto in occasione della strage di Capaci.
“Nell’indagine sulla strage di via D’Amelio – si legge nella relazione – ci fu un uso spesso disinvolto e non limpido dello strumento dei colloqui investigativi da parte di La Barbera e degli uomini del gruppo ‘Falcone-Borsellino’. Un uso destinato – come è stato detto in Commissione con metafora efficace – a ‘vestire il pupo'”. “Mai una sola investigazione
giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta”. “Mai – si legge ancora – alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell’indagine su via D’Amelio”.
“Certa – è scritto nella relazione – è anche l’irritualità dei modi (‘predatori’, ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo ‘Falcone-Borsellino’ condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti”.
”E’ certo il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali”. Secondo l’antimafia regionale si va ”ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine ‘Falcone-Borsellino’, Arnaldo La Barbera”.