Il sequestro dei beni ai mafiosi non è l’unica cura per lottare mafia e corruzione. Ci sono altri strumenti, a volte però dai confini incerti, e, comunque, è necessaria un’azione di coordinamento. Lo dice Giuseppe Pignatone, Procuratore Capo di Roma, nella sua relazione al convegno “Le ragioni dell’impresa e le ragioni dell’amministrazione della giustizia. I teatri della crisi”, tenutosi ieri a Roma.
“L’aggressione ai patrimoni illecitamente acquisiti – dice Pignatone – è ormai una linea strategica fondamentale del nostro ordinamento e trova la sua prima realizzazione, soprattutto a partire dalla L. 646/1982 (c.d. legge Rognoni-La Torre), con la confisca del provento del reato (in sede di processo penale) e di quanto “sia il frutto di attività illecita o ne costituisca il reimpiego” in sede di prevenzione.
Negli anni successivi il campo di applicazione delle misure ablative si è sempre più allargato:
– nell’ambito penale, sia con riferimento ai reati per cui tali misure sono possibili, sia con la previsione delle confische per equivalente e, più in generale, delle c.d. ‘confische allargate’;
– nell’ambito delle misure di prevenzione, che prescindono – come è noto – dall’accertamento di un reato, con l’estensione, sul piano soggettivo, a “coloro che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose“, con riferimento, quindi, alla pericolosità riconducibile, fra gli altri, ai ‘white collars crimes‘ (corruzione, evasione fiscale, truffe in danno dello Stato e di Enti pubblici, bancarotte fraudolente ecc.), purché connotati dal requisito della abitualità.
Del resto, a far data dai cd. ‘pacchetti sicurezza’ del 2008 e del 2009 la prevenzione patrimoniale è diventata sempre più autonoma dalla prevenzione personale ed è giustificata dalla pericolosità intrinseca del permanere delle ricchezze illecite in contesti mafiosi o paramafiosi anche sotto il punto di vista del pericolo di inquinamento dell’economia legale, piuttosto che dalla pericolosità del singolo soggetto.
Potete leggere cliccando qui il testo integrale dell’intervento di Pignatone, che conclude: ” Risulta che oggi, e specialmente dopo gli interventi degli ultimi anni, il legislatore prevede una pluralità di strumenti per contrastare i patrimoni di origine illecita e, più in particolare per contrastare le infiltrazioni mafiose nell’economia. Questi strumenti divergono sotto molti punti di vista: – quanto ai presupposti: alcuni richiedono l’accertamento di un reato; altri ancora costituiscono una tutela ancora più avanzata sul fronte della prevenzione e si basano quindi su elementi che rappresentano un minus rispetto alle stesse misure. C’è anche la misura meno afflittiva del sostegno e monitoraggio dell’impresa da parte di esperti di nomina prefettizia. Quanto agli effetti: alcuni prevedono misure ablative, cioè il sequestro e la confisca, come scopo diretto e immediato del procedimento; altri, invece, prevedono in prima battuta l’amministrazione giudiziaria e il commissariamento e la confisca è un risultato solo eventuale che può giungere all’esito di una fase anteriore e diversa. Altri ancora hanno un effetto solo interdittivo (di una parte) dei rapporti con la P.A. Alcuni hanno natura giurisdizionale, altri amministrativa.
Dopo una lunga fase, durata decenni, in cui l’obiettivo del contrasto ai patrimoni illeciti – in particolare quelli mafiosi, naturalmente – è stato innanzi tutto quello di giungere alla confisca e poi quello di contrastare il rischio di infiltrazioni mafiose senza porsi neanche troppo il problema delle conseguenze di certi provvedimenti né della concretezza degli elementi posti a base di essi, si avverte oggi, sia nella legislazione che in dottrina e giurisprudenza, una maggiore attenzione all’esigenza di attivare strumenti diversi per quelle aziende che, pur presentando forme di infiltrazione e di condizionamento mafioso, non ne siano però pregiudicate nella loro sostanziale integrità e siano anche intenzionate a rimuovere i presupposti di quel pericolo di infiltrazione e condizionamento. Per evitare una ingiustificata distruzione di ricchezze, e in particolare – ma non solo – la perdita di posti di lavoro, si cercano strumenti che a quelle attività imprenditoriali offrano, se ce ne sono le condizioni, l’opportunità del rientro nel mercato in condizioni di legalità. A questo obiettivo mira, oltre che gli strumenti normativi di cui abbiamo detto, il Controllo giudiziario previsto dal Progetto di modifiche al Codice antimafia, (nuovo art. 34 bis), che pur lasciando l’amministrazione ai titolari dell’impresa consente al Tribunale di dare prescrizioni stringenti ed anche di nominare un Commissario giudiziale al quale affidare specifici compiti di controllo sulla gestione dell’attività. Particolarmente interessante in questa proposta, confluita in un disegno di legge attualmente all’esame del Parlamento, è la previsione che il Controllo giudiziario può essere disposto dal Tribunale anche su istanza del soggetto colpito da interdittiva antimafia i cui effetti verrebbero in questo automaticamente sospesi. La seconda considerazione è che questa pluralità di strumenti presenta inoltre, a volte, zone di confine di incerta definizione e zone di sovrapposizione vera e propria, con esiti a volte paradossali, come si è messo in rilievo in precedenza. E tuttavia forse un miglior coordinamento, sempre auspicabile, non è compiutamente realizzabile in questo momento di continui cambiamenti normativi che corrispondono peraltro a esigenze avvertite in modo prepotente dalla società civile e dalla politica. Non resta dunque che affidarsi, nell’attesa di tempi migliori, alla saggezza e alla sensibilità degli interpreti (dottrina e giurisprudenza) che a queste norme così complesse, e a volte contraddittorie, devono dare concreta attuazione”.