di Pierangelo Bonanno
Lo scorso 15 giugno all’interno del c.d. decreto “del Fare” il Consiglio dei ministri ha deliberato una serie di misure urgenti per rilanciare il sistema paese. Tra queste si registra la reintroduzione della mediazione civile e commerciale obbligatoria. In realtà l’obbligatorietà della mediazione era stata introdotta già nel 2009, in quel caso si prevedeva che nelle cause civili andasse tentata una conciliazione tra le parti prima di arrivare in tribunale. La Corte costituzionale, lo scorso novembre, però ne aveva dichiarato l’incostituzionalità, spiegando nelle motivazioni che l’obbligatorietà non era parte della delega parlamentare concessa al governo.
Il ritorno della mediazione appariva già verosimile, dato che la relazione dei saggi, nominati dal presidente Napolitano, nelle settimane scorse ne faceva espressa menzione. Nella nuova versione il governo, per porre un freno alle possibili critiche dell’avvocatura, ha previsto l’automatismo tra l’attività di avvocato e di mediatore, escludendo nei fatti l’avvocatura, come unico ordine professionale, dai necessari percorsi formativi previsti dalla legge. Subito dopo la presentazione della relazione dei saggi Nicola Marino, presidente del sindacato degli avvocati (Oua), si era scagliato contro il ritorno della mediazione obbligatoria. Effettivamente il mondo dell’avvocatura ha da sempre espresso posizioni contrarie all’obbligatorietà della mediazione a differenza dei commercialisti che si collocano in prima linea a favore dell’istituto, di conseguenza le polemiche scaturite sono apparse, in alcuni casi, come scontri tra professionisti con interessi economici contrapposti, ma secondo Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera , “non si tratta di una sterile diatriba tra categorie diverse di professionisti.
Si tratta di riuscire a configurare un istituto, la media conciliazione, che può sicuramente tornare utile anche per deflazionare il carico delle cause civili che intasano i tribunali, ma che non deve tramutarsi per il cittadino in quarto grado di giudizio o in ulteriori esborsi economici”. Rispetto al tema della reintroduzione dell’obbligatorietà della mediazione la Ferranti, prima della recente reintroduzione, appariva contraria, infatti ritieneva che “il concetto di obbligatorietà è in sé poco compatibile con la media conciliazione che presuppone la volontà delle parti di addivenire a una soluzione concordata in un contesto sociale in cui si intendono mantenere buoni rapporti”. Sulle cause della crisi della mediazione e sul futuro del settore professionale, che conta quasi 1000 organismi e secondo le stime degli operatori del settore 40.000 mediatori, prima della sua nomina a ministro, si esprimeva Gianpiero D’Alia, ministro per la Pubblica amministrazione, sostenendo come “il governo dell’epoca abbia voluto introdurre, con notevoli forzature, l’istituto della media conciliazione.
Non importa, ora, se tale istituto sia il più utile per migliorare la qualità e la quantità dell’attività giudiziaria. Ciò che oggi è importante è rimuovere la condizione di incertezza venutasi a creare dopo la recente decisione della Consulta sia per ciò che riguarda i soggetti coinvolti sia per ciò che riguarda il processo. Penso, pertanto, che sia opportuno un intervento immediato del legislatore che faccia fronte agli effetti prodotti dalla sentenza della Corte Costituzionale e che renda obbligatoria la conciliazione stragiudiziale anche in forme diverse da quelle previste dalla disciplina cassata”. Dello stesso avviso appare il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, che nel suo recente libro sui mali della giustizia italiana scrive riferendosi alla mediazione che “personalmente ero e resto convinto che l’unico modo realmente efficace per indurre i cittadini ad utilizzare lo strumento sia quello di prevederne l’obbligatorietà“. Sulle contraddizioni della politica, sulla crisi del sistema professionale e sulla proposta dei saggi, poco prima della reintroduzione dell’obbligatorietà della mediazione, abbiamo intervistato alcuni esperti appartenenti a categorie professionali differenti e con visioni spesso contrastanti.