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“Sostiene Cosa nostra”: sequestrati i conti esteri dell’editore del La Sicilia, Mario Ciancio

Last updated on 28 febbraio 2021

Beni per 17 milioni di euro sono stati sequestrati da carabinieri del Ros all’editore Mario Ciancio Sanfilippo. Il provvedimento, richiesto dalla Procura di Catania, è stato eseguito, in applicazione delle norme antimafia, in un istituto di credito in Svizzera, dove erano depositati titoli e azioni per un valore di circa 12 milioni di euro e in una banca etnea, con il blocco di 5 milioni di euro. L’editore è indagato per concorso esterno all’associazione mafiosa e oggi si terrà l’udienza preliminare davanti al Gup al quale, dopo una prima richiesta di archiviazione rigettata, la Procura ha chiesto il suo rinvio a giudizio.

«È tutto alla luce del sole», commenta Mario Ciancio Sanfilippo, parlando di «parziale sequestro di somme ereditate e mantenute in Svizzera». I «capitali nei conti svizzeri – osserva – sono stati versati sin da gli anni ’60/’70 e sono rimasti per oltre 40 anni praticamente senza movimentazione». E, «non essendoci alcun mistero, non ho fatto ricorso al segreto bancario, ma ho autorizzato senza riserve la Procura svizzera a collaborare con la magistratura italiana».

Da accertamenti disposti dalla Procura per stabilire l’esistenza di «fondi detenuti illegittimamente all’estero dal Ciancio», sono stati «individuati, tra gli altri, depositi bancari in Svizzera, alcuni dei quali schermati tramite delle fiduciarie di Paesi appartenenti ai cosiddetti `paradisi fiscali´». «La richiesta di sequestro urgente – spiegano dalla Procura – è stata presentata quando Ciancio ha dato l’ordine di monetizzare i propri titoli detenuti in Svizzera e di trasferire il ricavato in istituti di credito italiani».

Una ricostruzione contestata dall’editore: «Le somme – sostiene – sono state oggetto di scudo e di collaborazione volontaria, conformemente alle leggi italiane, per aderire alla quale sono stati versati all’erario oltre 6,5 milioni di euro». E sull’ipotesi di `paradisi fiscali´ precisa: «i soldi sono stati fatti rientrare in Italia e depositati in un istituto di credito nazionale a Catania con lo strumento assolutamente trasparente e completamente tracciabile del bonifico bancario, non in contanti, non dovendo nascondere chissà che».

Nella richiesta di sequestro la Procura ritiene di avere «ricostruito numerosi affari del Ciancio che risultano infiltrati da Cosa nostra sin dall’epoca in cui l’economia catanese era sostanzialmente imperniata sulle attività delle imprese dei cosiddetti cavalieri del lavoro, tra i quali Graci e Costanzo». L’editore commenta «respingendo con forza il tentativo di spostare il calendario del tempo indietro negli anni, sino a creare un’incredibile commistione tra la mia storia privata e pubblica, il mio lavoro e le mie attività con quella di altri personaggi coinvolti in passato in vicende giudiziarie su cui è stata fatta ampiamente luce da numerose ed approfondite indagini in cui non è mai emerso nessun mio coinvolgimento, neanche indiretto». «Alla Procura – conclude Mario Ciancio Sanfilippo – dimostrerò, davanti a un giudice terzo, quale è la verità dei fatti, sgombrando il campo da suggestioni e talvolta fantasiose ricostruzioni, riappropriandomi pubblicamente dell’onore e della dignità che merito».

Le iniziative della Procura di Catania, per il vice presidente della Commissione antimafia, Claudio Fava, «sono notizie gravi perché riguardano il più potente editore del sud Italia» e «gettano un’ombra sull’uso che negli anni Ciancio può aver fatto dei giornali e delle emittenti di cui, in tutto o in parte, è l’editore».  Questo il pensiero di Fava:

Se sequestrano   17 milioni di euro a Mario Ciancio, cioè al più potente, riverito e temuto editore del sud Italia; se quei soldi (e molti altri ancora, risulta dalle carte) venivano conservati su fondi svizzeri gestiti da fiduciarie di copertura; se la Procura distrettuale di Catania (a cui va il nostro riconoscimento per il lavoro paziente e rigoroso che ha fatto, dopo molti anni di colpevole inerzia di quell’ufficio) ha deciso di esercitare l’azione penale nei confronti di Ciancio “per avere lo stesso, da numerosi anni, apportato un contributo causale a cosa nostra catanese”: insomma, se tutto questo è vero (e chi ha il coraggio di dubitarne?) dovremo riscrivere la storia di Catania e probabilmente dell’intera Sicilia.
La storia dei silenzi di certa stampa, delle fulgide carriere politiche accompagnate da quella stampa, delle speculazioni edilizie che hanno saccheggiato il territorio. La storia dei troppi consigli comunali compiacenti, dei sindaci corrotti o reticenti, di due generazioni di parlamentari della Repubblica (di maggioranza e d’opposizione) muti, sempre stolidamente, ostinatamente muti. La storia delle impunità criminali e dei poteri paralleli che laggiù hanno governato i destini di uomini e cose, denari e miserie. Per vent’anni il racconto onesto, sereno, mai reticente di tutto ciò è stata virtù di pochi, pochissimi. Adesso, con le carte giudiziarie in mano, forse taluni ritroveranno il coraggio di dire e di chiedere.
Troppo comodo, verrebbe da scrivere…

Altre approfondite indagini sono state delegate al Nucleo di Polizia Tributaria di Catania che ha acquisito le movimentazioni bancarie e altre informazioni sulle quali il consulente del Pubblico Ministero, la società multinazionale Price Water House Coopers S.p.A. (PWC), specializzata in revisioni in bilancio, sta ricostruendo il patrimonio del Ciancio negli anni. La richiesta di sequestro urgente è stata presentata dalla Procura Distrettuale della Repubblica nel momento in cui è venuta a conoscenza del fatto che Ciancio Sanfilippo Mario aveva dato l’ordine di monetizzare i propri titoli detenuti in Svizzera e di trasferire il ricavato in istituti di credito italiani. Nella richiesta di sequestro sono stati ricostruiti numerosi affari del Ciancio che risultano infiltrati da Cosa nostra catanese sin dall’epoca in cui l’economia catanese era sostanzialmente imperniata sulle attività delle imprese dei cosiddetti cavalieri del lavoro, tra i quali Graci e Costanzo. Le indagini hanno consentito di accertare l’esistenza di una sperequazione non giustificata tra le somme di denaro detenute in Svizzera ed i redditi dichiarati ai fini delle imposte sui redditi in un arco temporale assai ampio.“

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