E ora? Ora che un altro si è presentato alla nostra porta per raccontare la sua verità sulla strage di Via d’Amelio del 19 luglio 1992 in cui morirono il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta? Che facciamo? Ora che questo signore, con 80 omicidi alle spalle, racconta di aver preparato lui l’esplosivo per Borsellino e dice di non aver visto nessuno dei servizi segreti? Ora che è stato smentito dalla procura di Caltanissetta (Avola dice di essere a Palermo il 17 luglio 1992 ma era a Catania e aveva un braccio ingessato) che da anni si occupa di questa e altre stragi che ci diciamo?
Nulla, non ci diciamo nulla. Perché forse nulla merita questa vicenda, assurda e opaca come tante altre che hanno attraversato quasi 30 anni di bugie e depistaggi di Stato. Ma abbiamo parecchie cose da dire sulla sufficienza riservata a Fiammetta Borsellino da molti, sul compatimento nei suoi confronti di figlia che ha avuto un grande dolore come se fossero solo la rabbia e il dolore a muovere la sua richiesta di verità. Non si tiene conto che Fiammetta parla a nome suo, dei fratelli e di tutti noi. Ed è una testimone per aver sentito le parole di suo padre, Paolo il magistrato abbandonato e isolato dai suoi colleghi. Chiede verità e giustizia e continua a esprimere i suoi dubbi in tutte le occasioni possibili nella speranza che prima o poi qualcuno si adoperi per fare un po’ di chiarezza. A distanza di quasi trent’anni forse ci sono reati non più perseguibili ma c’è sempre tempo per capire cosa è veramente accaduto. Fiammetta fa nomi e cognomi (ieri sera su La 7 per esempio ha citato ancora una volta i magistrati Lo Forte e Scarpinato oltre a Giammanco che, però, non è più tra noi) , ha parlato di quel dossier “Mafia e appalti” così come ne ha parlato Antonio di Pietro circostanziando denunce e incontri avuti in quegli anni anche con ufficiali del Ros come Giuseppe De Donno. Ogni volta arrivano nuovi particolari che si aggiungono a cose dette e ridette centinaia o migliaia di volte su questo e su quello e spuntano testimoni più o meno obliqui che raccontano di Agenda rossa (di cui Borsellino non si separava mai) e di coinvolgimenti strani e ad altissimo livello. L’informazione che fa il suo dovere, certo, mette sul tavolo scoop di prima o seconda mano. C’è la Trattativa Stato-mafia tra i motivi che hanno accelerato la morte di Paolo Borsellino? O la necessità di zittire eliminadolo un magistrato che aveva capito tutto sugli affari e le trame oscure della Sicilia dominata da una mafia radicata e potente.
Che strumenti abbiamo per capire? Se le istituzioni hanno ancora un senso abbiamo gli strumenti già utilizzati per altre vicende come l’affaire Moro. Se proprio non ci sono elementi per riaprire le indagini, per fare una nuova (l’ennesima) inchiesta. Allora si muovano le istituzioni, si faccia una commissione d’inchiesta, si chiamino a testimoniare tutti coloro che sanno o potrebbero sapere cosa è accaduto negli ultimi due mesi della vita di Paolo Borsellino. Sono i giorni che separano la strage di Via D’Amelio da quella di Capaci. Si chiamino a testimoniare magistrati, inquirenti, uscieri e giornalisti, quei cronisti così attenti da non essersi accorti del grande depistaggio messo in piedi da Arnaldo La Barbera e da altri. Ogni anno qualcuno ci propone un papello di racconti su quegli anni e ci appioppa scoop come se non sapesse o avesse saputo della doppiezza di certi personaggi, delle polpette avvelenate che giravano in quegli anni e venivano distribuite a questo e a quell’amico. E questo governo faccia, finalmente, quello che non sono stati capaci di fare altri: tolga il segreto di Stato dove c’è da togliere, renda pubblico tutto, apra gli archivi, consegni i frammenti di verità che sono sicuramente presenti negli armadi di Stato all’opinione pubblica perché ne possa serenamente leggere il contenuto.
Finiamola con le testimonianze d’accatto, con le verità comode, con la ricerca di pezze d’appoggio per i teoremi. Basta.