La sciagura aerea di Montagna Longa, che si verificò la sera del 5 maggio 1972 nei pressi dell’aeroporto di Punta Raisi, provocando 115 morti, “fu causata da un sabotaggio”.
E’ la tesi contenuta in un libro appena edito da Cambridge Scholars Publishing (“Unconventional Aeronautical Investigatory Methods.
The Case of Alitalia Flight AZ 112″.), scritto dal docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo, Rosario Ardito Marretta, che ribalta le conclusioni cui giunsero i giudici nel processo che si concluse nell’84, nel quale la responsabilità dell’accaduto fu attribuita ai piloti del volo Alitalia proveniente da Roma e schiantatosi a oltre 900 metri di quota contro Montagna Longa.
Marretta arriva a queste conclusioni dopo un lungo lavoro, commissionategli dall’Associazione parenti delle vittime di Montagna Longa, attraverso prove di laboratorio e l’utilizzo di modelli matematici che mezzo secolo fa non potevano trovare applicazione per la complessità dei calcoli, oggi resi possibili da computer veloci. “Non parlerei di ipotesi – afferma – perché la probabilità di ciò che sostengo è talmente alta da superare quella che l’esame del Dna fornisce sull’identità di una persona”.
Secondo lo studioso, una micro carica posta in un incavo dell’ala avrebbe potuto creare uno squarcio con perdita di carburante e relativo incendio.
La vetrificazione silicea – ha spiegato Marretta – avrebbe dovuto avere un effetto Napalm: avrebbe dovuto cancellare ogni filo d’erba per 50 anni, ma così non è stato. Inoltre la tesi dell’errore umano non regge. La soluzione proposta dall’ingegnere potrebbe rimettere a posto il puzzle. “Qualcosa, la bomba – ha spiegato l’ingegnere aereonautico a Repubblica – ha determinato la fuoriuscita di kerosene dall’aereo e il resto lo ha scaricato il pilota, tentando una disperata manovra di atterraggio”. Tutte cose che fanno il paio con le osservazioni di chi vide precipitare l’aereo. Secondo il professor Marretta, la bomba, “grande quanto un pacchetto di sigarette” sarebbe deflagrata vocino all’ala destra. La scatola nera, che avrebbe potuto raccontare almeno un parte di verità, aveva smesso di funzionare sette ore prima.
A bordo dell’aereo c’erano personaggi noti: il regista Franco Indovina e il presidente del Tribunale di Palermo, Ignazio Alcamo, che qualche giorno prima aveva spedito al confino la moglie di Totò Riina, un noto costruttore palermitano e il figlio dell’allora allenatore della Juventus, Cestmyr Vycpaleck. Ma anche la giornalista Angela Fais, che da giorni stava approfondendo il tema delle trame “neofasciste” in Sicilia.
Il vicequestore di Trapani Giuseppe Peri che crede nella pista dell’attentato nel 1976 pubblica un dossier: 36 fogli che scrivono una storia misteriosa, sulla scia delle confessioni di un neofascista brindisino. Peri imbrocca la pista del patto tra mafia e neri: ipotizza che la strage di Montagna Longa fosse uno dei tasselli del mosaico della “strategia della tensione”. Attentato di matrice “neofascista”, intrecciato nel quadro di rapporti tra mafia, servizi segreti deviati e poteri occulti.
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